(4) Tutti i racconti del secondo numero!

  • Nuda forza della Catastrophone Orchestra
  • Chananke: Helen di Ginox

nudaforzaNuda forza dell’Orchestra Catastrofonica

Primo Maggio 190?, Nuova York

Neal camminava su e giù nella buia pensione-clinica gratuita dell’Orchestra Catastrofonica, curando di non far cadere la cenere della sua sigaretta sugli ansimanti pazienti che ne gremivano il pavimento. Aveva già raccolto il vomito e il sangue gettandoli nel tombino la sera prima: oggi era il Primo Maggio e voleva muoversi di buon’ora. In genere alla clinica nessuno si destava prima di mezzodì, ma quel pomeriggio l’Orchestra Catastrofonica doveva suonare e alcuni membri del complesso erano già svegli.
Ricoperto di fuliggine, Pip sembrava la negativa di un procione ora che gli occhialoni da saldatore gli pendevano dal collo. Imprecava contro la superficie riflettente dei tubi in ottone del Catastrofono, lo strumento principe dell’orchestra che in quel momento sbuffava vapore e vomitava acqua bollente.
Il Catastrofono era uno strumento implausibile, partorito dagli abissi della brillante mente di Pip quando ancora rimetteva in circolazione pezzi di motori a vapore chiusi in rimesse ferroviarie malamente sorvegliate. Purtroppo per l’orchestra, Phil sembrava più versato per lo smontaggio in velocità e per la fabbricazione creativa che per il delicato equilibrio del riallineamento e del montaggio meccanico, e quando le conoscenze tecniche lo abbandonavano, cosa che accadeva piuttosto di frequente, di solito faceva affidamento sui muscoli di Neal. A volte gli strumenti dell’orchestra erano più fantasiosi che funzionali, e sovente gli effetti erano esplosivi.
Sdraiato sulla sbiadita dormeuse color amaranto, il professor Calamity massaggiava distrattamente la crespa chioma della sua ex paziente (e attuale amante) osservando con sguardo trasognato i vani tentativi di Pip di rimettere la macchina in funzione.
– Si direbbe che il nostro povero strumento non sia in gran forma. Non è normale che sputacchi come un dromedario, nevvero? – canticchiò il senescente alienista coprendo il si bemolle sempre più fioco che stillava da un tubo ammaccato.
– Le corone di rame non sono a chiusura stagna. Quando Mathilda suonerà il suo assolo potremmo perdere tutta la macchina, – disse Pip strofinando le dita sporche d’acqua oleosa sullo spesso grembiule di gomma.
– Meno male che non siamo artisti e che siamo solo terroristi che usano l’arte –. La voce di Calamity si spense mentre il suo sguardo si fermava sulle ciocche ritorte di Mathilda.
La donna si alzò, districando la mano del professor Calamity dai suoi caotici riccioli, e si diresse leggera verso il suo strumento. Nel suo nero vestito a lutto, sembrava sotto ogni aspetto un oscuro fantasma che accarezzava soddisfatto i caldi tubi in ottone.
– È a posto: suonerà bene più tardi, – disse in un sussurro, trafiggendo Pip con il suo disturbante sguardo maniacale.
– Non è a posto. Salterà in aria, te lo dico io! Mi serve altro tempo per le modifiche. Sarebbe da pazzi…! – farfugliò Pip.
– Da pazzi? – ribatté lei, e quella parola stillò velenosa dalla sua lingua mentre si girava verso di lui.
– Oh, la cosa si fa interessante, – mormorò Calamity cercando la sua siringa.
– Mi dispiace, Mathilda, ma questa macchina non è stabile. Forse un rattoppo a quei tubi potrebbe bastare, ma…
– Vorresti costringere la mia macchina in un corsetto di fil di ferro? Preferirei far saltare in aria tutto il pubblico piuttosto di permettertelo… Tu hai paura della sua potenza e della sua libertà. Mai!
Ora “Mathilda l’Isterica” teneva fede al suo soprannome e i pazienti tisici e sfiniti dall’oppio che giacevano a terra si svegliarono e con una ritirata goffa ma rapida si allontanarono dal quinto piano.
– Neal, per favore… – implorò Calamity agitando una mano in direzione di Pip e Mathilda per poi cacciarsi, trovandosi a corto di parole, un logoro guanciale sulla testa.
Neal scosse la testa e la sua moicana fresca di tintura oscillò; nell’ultima settimana aveva già giocato almeno quattro volte a quel gioco ed era sempre la stessa storia: subito prima degli spettacoli tutti si davano sui nervi a vicenda. Erano come una famiglia: si volevano tanto bene ma ogni volta che si sedevano intorno a un tavolo per il Ringraziamento non facevano che litigare.
In qualunque altro giorno Neal si sarebbe goduto la scena, ma oggi era già in ritardo. Si mosse per intercettare Mathilda mentre lei inseguiva Pip che batteva in ritirata per tutta la clinica, tra affondi e parate che abbattevano fiale e strumenti vari lungo il percorso. Neal cinse la donna con le sue robuste braccia segnate dalle cicatrici.
– Mathilda, il dottore non sta bene. Guarda che hai fatto a quel povero bastardo, – disse poi lasciando libera l’erinni.
Mathilda si precipitò dal professore gemente e prese a fargli le moine, sussurrando con un dolce accento slavo.
– Neal, dammi una mano con queste fascette, – chiamò Pip ricomponendosi e afferrando un groviglio di fil di ferro soffiato chissà dove.
– Oggi è il Primo Maggio: cavatela da solo. Io vado a dare un’occhiata a Tompkins Square, – rispose Neal afferrando il suo manico d’ascia.
– Allora credo che ci vedremo lì per il recital, se riesco a far funzionare questo coso. Fa’ attenzione, – lo avvertì Pip.
– Ho altro a cui pensare.

– Molly mi ha detto che Flynn ha trovato lavoro all’Hotel Astor, – disse Theresa girando il pane sulla piastra di ghisa.
John Henry si alzò dalla sedia davanti alla tavola della cucina e si accostò alla moglie mentre lei prendeva il latte rimasto dal davanzale ricoperto di escrementi di piccione della loro squallida casa operaia.
– Non parliamone adesso: è il Primo Maggio.
– Al diavolo il Primo Maggio, John. Come faremo? Devi trovare un lavoro, – ribatté lei con la voce spezzata, sopraffatta dalla disperazione.
– Io un lavoro ce l’ho. E alla fine di questa storia ce la passeremo tutti meglio. Dobbiamo solo superare il momento. Non potranno resistere ancora per molto. Le derrate stanno già cominciando a marcire nelle navi e questo sciopero sta riducendo i padroni in camicia. Ci vuole ancora poco. Perfino il sindaco è dalla nostra parte.
– Del sindaco non m’importa un tubo. Porterà lui il pane in casa, forse? Noi siamo la tua famiglia, John: ci meritiamo di meglio, – implorò lei prendendo la sua grossa mano fra le sue.
– Ma è per la famiglia che lo sto facendo. Che uomo sarei altrimenti? Io non sono un dannato crumiro. Qualcuno doveva pur bloccare gli ingressi, sennò saremmo rimasti schiavi per sempre. Qualcuno deve lottare. Queste cose ti sono passate per la mente, non è vero, cara?
– Vuoi sapere cosa mi passa per la mente tutte le mattine quando vai al picchettaggio, John? Quello che mi passa per la mente è che tuo figlio non riesce a lavarsi i denti perché le gengive gli sanguinano troppo. Per la mente mi passa che a tua figlia non entra più neanche un paio di scarpe. E mi passa per la mente che al mercato giù all’angolo le bancarelle sono sempre più vuote e che la nostra tavola lo è ancora di più. Ecco cosa mi passa per la mente, John: la nostra famiglia ne ha passate proprio tante.
Quando sua moglie si comportava così, John non riusciva a discuterci: qualunque cosa dicesse la faceva arrabbiare ancora di più. Ma anche lui era arrabbiato.
La sera si infuriava a vedere quelli che fumavano il sigaro al Gramercy. L’odio lo avvolgeva come un lenzuolo le gelide mattine al picchettaggio, quando impediva ai crumiri di togliere il pane di bocca ai suoi figli. La sua sfortuna non lo aveva accecato: gli aveva indicato la strada verso una nuova e più giusta aurora. Erano questi i pensieri che indugiavano nella sua mente, ed era tremendo non poterli comunicare a sua moglie. Aveva sempre affermato con orgoglio che un vero uomo dava prova della sua integrità con i fatti e che le parole sofisticate era meglio lasciarle ai democratici di Tammany Hall. John afferrò la sua bandiera rossa e lasciò la sua magra prima colazione nel piatto.
La mente concentrata su tutte le cose che avrebbe voluto dire a sua moglie, scese di corsa le sei rampe di scale fuligginose fino in strada. Gli sarebbe piaciuto che fosse andata con lui allo Henry Settlement quando Lucy Parsons aveva infiammato gli animi parlando di rivoluzione. Tutti i discorsi in quelle stanze fumose gli avevano fatto capire che stavano combattendo una guerra vera, una guerra tra operai e sfruttatori, e che era orgoglioso di essere un soldato dal lato giusto del fronte. John stava riportando alla mente quei discorsi quando inciampò in un ubriacone svenuto in fondo alla scala buia.
L’uomo andò a schiantarsi contro le mattonelle scheggiate del pianerottolo e il vagabondo puzzolente che stava steso sulle scale registrò l’incidente girandosi dall’altra parte e tirandosi il soprabito liso sopra il volto ingrigito. Mentre un rivolo di sangue gli usciva dal ginocchio sbucciato, John sentì il dolore inondargli la gamba. Ogni giorno che passava nel quartiere c’erano più ubriachi: non solo i rifiuti della società più inveterati, ma anche bravi lavoratori che non riuscivano più a sopportare le umiliazioni quotidiane di una schiacciante povertà. Lui non sarebbe mai stato tipo da nascondersi sul fondo di una bottiglia o sulla punta di un ago: si sarebbe battuto per sé, per sua moglie e per tutte le altre persone oneste.
– Ehilà, Johnny, vecchio mio, tutto bene? – Flynn, il vicino di John, stava rincasando dal suo lavoro di fattorino d’albergo e gli tese una mano guantata di bianco. John si alzò, rifiutando l’aiuto, e scosse via la terra dalla gamba strappata del pantalone. Sentendosi a disagio, Flynn si chinò a raccogliere la bandiera rossa.
– Sai, non è male, come lavoro. All’albergo conosco un po’ di gente: potrei darti una mano. Non è un problema: tu hai aiutato me e Molly quando ne avevamo bisogno. Non mi peserebbe per niente, – divagò Flynn fissando la bandiera.
Flynn era un brav’uomo, e giù al porto era stato un compagno passabile: forte di schiena e sempre con la battuta pronta. Adesso non riesce nemmeno a guardarmi in faccia, pensò John tra sé.
– Che ti prende, Flynn? Sembri un cazzo di scimmia ammaestrata con quei vestiti, – disse John passandogli le dita attorno alla cintura di pelle nuova che gli sgualciva la camicia.
– L’albergo paga la livrea per metà.
– Cosa? Ti fanno pagare il colletto? Va’ a toglierti questa stronzata di dosso: ti aspetto, – intimò John mollando la presa e scrollando disgustato la testa.
– Come?
– È il Primo Maggio. Il comizio a Tompkins Square inizia a mezzogiorno, – rispose John indicando la bandiera che Flynn stringeva ancora in pugno.
– Ho fatto due turni di seguito e il piccolo non ha mai smesso di piangere: magari ti raggiungo dopo al Lion’s Den. Ti piace la proposta? – offrì Flynn accingendosi a salire le scale.
John gli strappò la bandiera di mano e uscì dal caseggiato. Una volta in una camera del lavoro aveva sentito un oratore dire: “Il tempo vola all’indietro qui nel Lower East Side: adesso viviamo di nuovo nelle caverne, ma stavolta dobbiamo anche pagare l’affitto”. John non era più riuscito a togliersi quell’immagine dalla mente.
Le case operaie erano fredde in inverno e forni roventi in estate, ed erano esche per gli incendi tutti i mesi dell’anno. Quei palazzi erano stati costruiti in fretta e furia dagli speculatori edilizi di Nuova York e di Boston per approfittare dell’interminabile afflusso di immigranti disperati. Negli Stati Uniti era la prima volta che abitazioni costruite specificatamente per i poveri erano state progettate e pagate dai ricchi. Gli appartamenti sfruttavano ogni singolo metro quadro della lottizzazione del Lower East Side: finestre, muri, pozzi d’aerazione e scivoli per il carbone venivano tutti sacrificati nel tentativo di infilare nelle case quante più anime possibile. E, ovviamente, di fruttare quanti più guadagni possibile ai loro proprietari. Persino i vicoli affollati e fumosi delle strade vicine sembravano salubri in confronto con i tuguri ammassati e bui delle case operaie.
John si diresse zoppicando verso l’unico parco di quella zona della città. La solita folla del Primo Maggio riempiva Tompkins Square per metà. John si fece strada tra una massa di sarti ebrei anarchici dai lunghi cappotti. Indicavano un articolo su uno dei loro giornali e discutevano ad alta voce in yiddish. Un biondino scalzo con una ferita purulenta sulla tempia distribuiva volantini sul lavoro minorile nelle miniere della Pennsylvania. Dal suo accento, John Henry capì che era un rozzo gallese delle miniere di carbone degli Appalachi. Accettò un volantino dal ragazzo e se lo infilò nella tasca del soprabito, poi spiegò la sua bandiera rossa e si diresse verso il palco. Nell’aria senza vento del mattino, centinaia di bandiere rosse e nere pendevano come asciugamani bagnati stesi ad asciugare.
Un uomo dal viso paonazzo urlava in un megafono gesticolando come un folle a ogni frase. Era un rappresentante di Tammany Hall che per lanciare un candidato prometteva di tutto, dal lavoro alla luna. John voltò le spalle al palco e passò in rassegna la folla. Si ricordava di altri comizi del Primo Maggio in cui i due viali che circondavano il parco traboccavano di operai, in cui un mare di bandiere rosse fiero e ardito aveva dilagato fino a Broadway. John si chiese che ne fosse stato di tutta quella gente, ma gli bastò voltarsi a sinistra e vedere la fila di gendarmi a cavallo per dare risposta alla sua domanda.
L’uomo aveva partecipato tre anni prima ai grandi tumulti del Primo Maggio. All’epoca la città aveva soltanto una forza di polizia, e gli agenti avevano attaccato il corteo con i manganelli e con il calcio dei loro fucili. Lungo la First Avenue avevano schierato una fila di cellulari pronti a portare i manifestanti nelle Tombe.
John si era battuto fianco a fianco ad anarchici, socialisti e liberi pensatori oltre che ai suoi compagni comunisti. Insieme avevano respinto la polizia, e avrebbero potuto fare irruzione nel Municipio se solo lo avessero voluto. Ora rimpiangeva che non lo avessero fatto: forse allora le cose sarebbero cambiate. Negli anni che seguirono i tumulti, i gendarmi (e a volte anche la guardia nazionale) si erano avventati sui manifestanti ancor prima che gli oratori salissero sul palco.
John aveva trascorso più di un Primo Maggio chiuso nelle Tombe, e altri erano stati meno fortunati di lui. Quel che è certo è che sapeva cosa fosse la paura. Ma un uomo deve comportarsi comunque da uomo, pensava lui facendo scorrere lo sguardo sulla rada folla di ostinati radicali. Ora gli pareva che, proprio come le bandiere flosce che lo circondavano, anche le lotte operaie avessero perso vitalità. Ma lui non si deprimeva, perché vedeva i suoi compagni portuali aspettare che il pallone gonfiato di Tammany Hall finisse di parlare. Torreggiante sul fondo del palco, Sean “Due metri” Sullivan già ripassava i suoi appunti. Forse gli altri anni c’erano stati tumulti e la gente era di più, ma stavolta c’era stato uno sciopero vero, uno sciopero che stava quasi per trionfare. Lo sciopero più imponente che la città avesse mai visto. John rispettava Sullivan: lo aveva sentito parlare molte volte, e sapeva che quell’irlandese dalla chioma nera, messa ormai da parte la sua aggressività, poteva unire le masse per sostenere i portuali. John dimenticò il dolore pulsante al ginocchio e la sensazione di vuoto allo stomaco perché sapeva che Sullivan poteva trasformare il suo dolore in forza e nutrire il suo spirito.

Persino i battaglieri birrai della Brooklyn Brewery si scansarono quando Neal fece la sua comparsa tra la ressa disordinata con indosso i suoi calzoni di pelle da battaglia e sfoggiando una fiera moicana rossa. Quegli idioti avevano appena fischiato il celebre rivoluzionario anarchico Johann Most perché lui si era messo a predicare la «propaganda del fatto» tessendo le lodi di un povero emigrante italiano che aveva sparato a Elisabetta, la regina d’Austria. In realtà Most era proprio il tipo d’uomo che Neal avrebbe voluto sentir parlare, e se non fosse uscito dalla clinica in ritardo nessuno avrebbe fischiato, si disse tra sé.
Neal si annoiò presto di quei discorsi monotoni e decise di andare a dare un’occhiata al palco a conchiglia all’estremità nord del palco, dove l’Orchestra Catastrofonica avrebbe suonato più tardi, sempre che alla fine si fosse presentata. Neal stava tentando di stabilire da che parte sarebbe scappata la folla se lo strumento di Mathilda fosse esploso sul palcoscenico quando un’unità delle forze speciali gli si avvicinò flemmatica: essendosi staccato dalla folla, gli sbirri avevano notato lui e il suo manico d’ascia.
– Ehi, amico, quello non lo puoi tenere, – abbaiò l’ufficiale dietro i suoi baffi pendenti indicando il bastone di legno mentre uno dei suoi compari roteava una mazza in legno di noce.
– Spiacente: non ci sento molto bene. Un agente come lei mi ha spaccato il timpano qualche tempo fa. Se si avvicina un altro po’, capirò meglio che problemi ha, – disse Neal picchiando il manico di quercia sulla palma della mano rivestita di pelle.
I gendarmi cominciarono ad accerchiarlo piano.
– Chi di voi ha una sigaretta, così capisco chi abbattere prima? Ho bisogno di una cicca, – disse Neal con un sorriso. Questo Primo Maggio potrebbe farsi interessante, dopotutto, pensò.
Prima che gli sbirri decidessero chi di loro avrebbe cercato di disarmare Neal, un’orda di steampunk si diresse verso di lui. L’uomo conosceva una di loro, una ragazza pelle e ossa dagli scandalosi dreadlock verdi che un tempo sfoggiava una bella chioma viola scuro.
– Gadget, brutta scema! – disse Neal senza spostare gli occhi dagli innervositi uomini in divisa.
Gadget saltò addosso a Neal, stringendogli le magre gambe attorno alla vita, e lo baciò sulla barba di due giorni mentre gli altri steampunk chiedevano qualche spicciolo agli agenti. La ragazza sussurrò nell’orecchio di Neal: – Ci è arrivata una bella dritta: perché non vieni con noi? E poi dietro al palco c’è una schiera di sbirri su di giri.
Neal sbirciò dietro il palcoscenico e vide un gruppo di poliziotti municipali a cavallo che si dirigevano verso la conchiglia. O ce l’avevano con lui o volevano sbattere fuori dal parco le forze speciali, ma lui preferiva non scoprirlo.
– Io e la mia ragazza andiamo a farci un bicchiere. Ci si vede, – disse Neal sghignazzando mentre scortava l’adolescente ridacchiante verso il centro del parco. I gendarmi gli urlarono qualcosa dietro mentre si allontanava, ma lui non si curò di ascoltarli.

Sullivan c’è riuscito un’altra volta, pensò John mentre agitava in aria la sua bandiera rossa. Il colossale irlandese, l’autoproclamato “re degli operai”, aveva infiammato la folla trascinandola dalle miserabili condizioni delle case operaie agli sfavillanti lidi dorati dell’organizzazione dei lavoratori. Calmo e sicuro di sé ma dotato del piglio minaccioso che bastava per tenere tutti al loro posto, a Coney Island aveva incitato la folla come un domatore di leoni. Era fatto per arringare le masse operaie e aveva sposato la causa apocalittica della lotta di classe di Nuova York. Si fermò a prendere fiato dopo aver incitato la folla e, girandosi, guardò i poliziotti che circondavano il raduno. Il loro compiacimento da predatori era stato completamente annullato. Fece una breve pausa prima di riprendere il discorso, in attesa di essere «spontaneamente» interrotto da suo genero Mikey O’Connor. Mikey attraversò nervoso il palco, la camicia macchiata di sudore. Sullivan fece una mossa teatrale per parlare con lui, fingendo sulle prime di essere infuriato per l’interruzione. La folla restò silenziosa a guardare il grande uomo parlottare sottovoce con il genero. Poi Sullivan gli girò le spalle e si diresse verso il bordo anteriore del palco.
– È il marito di mia sorella: sapete come sono fatti i parenti acquisiti. Concedetemi soltanto un minuto, – urlò con un sorriso smagliante.
Gli uomini del pubblico risero: pendevano tutti dalle sue labbra.

John era stato intento ad assimilare i sogni retorici di Sullivan quando di colpo fu spinto via da un colosso con una rossa moicana dentellata che torreggiava sul branco di adolescenti bestiali con cui stava parlando. Con il passar degli anni John aveva visto crescere il numero di quei ragazzi tatuati e pieni di piercing che bighellonavano ai margini della scena politica radicale e della stessa città. Li aveva visti lanciare mattoni ai clienti che uscivano da una filiale di Woolworth’s durante un recente sciopero fallito e aveva sentito dire che avevano bevuto tutti gli alcolici a una cena di beneficenza per i metalmeccanici arrestati durante uno sciopero a Filadelfia. John sapeva che alcuni suoi compagni avevano sperato di incanalare la loro furia per farne combattenti al servizio delle lotte operaie, ma lui aveva la netta sensazione che se un cambiamento reale ci sarebbe stato, sarebbe stato il popolo a  compierlo. Il popolo vero. La gente onesta disposta sia a lavorare che a lottare per una giusta causa. Quei ragazzini volevano soltanto azzuffarsi, e la città era già piena di gente che si azzuffava mentre i ricchi bevevano champagne dietro le loro mura dorate.
Quando Sullivan interruppe il discorso per consultarsi con Mikey e con gli altri uomini sul palco, John colse una parte della conversazione tra Neal e i ragazzini.
– Le porte sono aperte, – disse Gadget tentando di convincere Neal. – I piedipiatti sono tutti qui a tenere d’occhio questi manichini. Possiamo prendere tutto quello che ci pare. E poi marcirà tutto comunque.
Il resto della truppa annuì per far vedere che era d’accordo. Stavano parlando di andare al porto, di intrufolarsi nei magazzini chiusi e di sgraffignare tutto quel che potevano. Nelle nove settimane di sciopero altri cittadini disperati e qualche banda organizzata ci avevano già provato, ma erano stati tutti bloccati dagli scaricatori in sciopero o dai gendarmi che proteggevano le derrate marcescenti. Mallard Kingston, il principale rappresentante dei ricchi spedizionieri, aveva dichiarato allo Herald: «Lasceremo morire di fame l’intera città prima di trattare con gli operai ricattatori», e gli sbirri sembravano più che disposti a trasformare la visione catastrofica di Kingston in realtà.
– Dai, Neal, andiamocene. Qui non succederà niente. Ci sono solo uomini noiosi, – e sottolineò la parola «uomini», – che fanno discorsi noiosi su un futuro lontano mentre nel nostro futuro si prospetta un bel bottino giù ai magazzini! Dai, andiamo!
John contenne a malapena la rabbia. Gli operai e i poveri di quella città pativano la fame in solidarietà con i portuali sotto assedio e quella ragazzina, che non aveva mai lavorato un’ora in vita sua, non vedeva altro che un’occasione di appropriarsi di cose che non le appartenevano. L’uomo capiva che era il sistema ad annientare ogni senso della morale, del giusto e dello sbagliato: in effetti i ricchi sostenevano che per loro era giusto e naturale festeggiare mentre i bambini restavano digiuni al freddo delle case operaie. Non stupiva affatto che quegli stessi bambini avessero dimenticato cosa significavano l’onesto lavoro e la giusta lotta. Non poteva restarsene lì in silenzio: non ne era mai in grado quando si indignava.
– Ascoltate, ascoltate. Avete fatto la cosa giusta da Woolworth’s. Voi e i vostri amici eravate dalla nostra parte, e anche ora dobbiamo rimanere uniti. So che è dura, – disse John rivolgendosi soprattutto a Neal, che fece un passo indietro per farlo entrare nel cerchio degli steampunk.
– La solita storia. Andiamocene prima che il comizio finisca, – disse uno steampunk tirando fuori un mozzicone spento e raggrinzito.
– Non è solita, è eterna: si tratta di una cosa chiamata solidarietà. Non lasceranno che tutta la città muoia di fame. Non potranno se rimaniamo uniti. Il sindaco lo sa.
– Al diavolo il sindaco, – sbottò Gadget, – noi di lui non ci fidiamo, e nemmeno di te. Neal, andiamocene.
– Solidarietà! – urlò John, esasperato dalle maniere degli steampunk.
– Non alzare la voce con me, – disse Gadget facendo un passo verso John. – Quella che tu chiami solidarietà è tutto tranne che quello. Che hanno fatto gli scioperanti per noi? Che hanno fatto per chiunque altro? Io dovrei morire di fame in modo che voi guadagniate un nichelino in più alla settimana? Così noi moriamo e voi vincete. Ma cosa vincete? Il gioco è truccato, amico. Siamo tutti perdenti, e se riusciamo a barare per ottenere una mano decente, che male c’è?
John fece un passo indietro e mise la mano sulla spalla di Neal.
– Tu resterai: mi sembri uno che capisce la necessità di restare uniti fra operai.
Neal accettò una sigaretta da uno steampunk e soffiò un anello di fumo sopra la folla. – Io non sono più un operaio. Non lo sono da anni. Un tempo agitavo la bandiera rossa con la tua gente, ma so che i colori del futuro saranno il nero e il blu dei lividi. Per questo sono qui –. Neal guardò i ragazzini steampunk farsi largo nella folla in direzione del porto.

Sullivan tornò al centro del palco. – Signori! Attenzione, prego. Mikey mi ha appena detto che quei dannati parassiti degli spedizionieri hanno trovato un modo di spezzare lo sciopero. Oggi, proprio oggi mentre siamo qui riuniti, vogliono spezzare lo sciopero prendendoci di sorpresa!
La folla esplose in un boato incredulo mentre il politicante democratico scendeva dal palco senza dare troppo nell’occhio.
Sullivan represse un sorriso e alzò le mani per placare gli animi.
– So che il sindaco e i suoi leccapiedi ci hanno promesso che i crumiri non sarebbero stati lasciati entrare, che la polizia li avrebbe perfino fermati se i capi ci avessero provato e tutte le solite storie. Il sindaco sa che potremmo distruggere la città come stavamo per fare due settimane fa, sa quanto è ferrea la nostra decisione. Per questo lui e i suoi consiglieri hanno approvato il Packard Plan. Niente crumiri nel porto. Ma quando si tratta di soldi i padroni, sanguisughe succhiasangue che non sono altro, non si tengono a freno. Ora hanno trovato un modo di spezzare lo sciopero senza procurare fastidi ai loro amici democratici o al sindaco durante le elezioni. I crumiri non gli servono: stanno facendo arrivare delle macchine per scaricare le navi.
La folla si zittì incupita. La preoccupazione soffocò il recente entusiasmo dei dimostranti non appena capirono che la loro lotta stava andando in fumo.
– Permetteremo a quei bastardi scellerati di annientare la nostra causa? Andrà così? – Sullivan già conosceva la risposta. – Possiamo fermarli, fermarli per sempre. Proprio ora, lungo la Highline, sta arrivando un treno carico di quei congegni infernali: sta sfrecciando in questo momento sullo Hudson. Ma noi possiamo fermarlo. Possiamo scaraventare quei dannati giocattoli nel fiume e dire a quelle palle di lardo che non potranno negarci quel che è nostro. Ci batteremo? Abbiamo affrontato i crumiri e la polizia e affronteremo anche quelle macchine! Alla Highline!
La Highline, la ferrovia sopraelevata di New York, era un tentativo di alleviare la sofferenza dei poveri che vivevano ai margini del West Side che come effetto collaterale aveva incrementato l’afflusso di merci al centro della città. Prima, per importare qualunque genere di materiale, i treni passavano per le affollate strade di Manhattan. Persino i famosi pezzi in ferro battuto del palazzo di Woolworth, fatti arrivare dalle officine di Pittsburgh, si erano dovuti fare strada fischiando nella ressa del Bronx per raggiungere le banchine di Lower Manhattan. Ma oltre alle materie prime e all’acciaio, i treni portavano anche morte, ferite e una nebbia soffocante intrisa di carbone. Gli incidenti erano tanti che l’Undicesima Strada era stata soprannominata «Strada della morte». In effetti gli scontri tremendi con i carri trainati da cavalli e con gli anziani di ritorno dai mercati della verdura «ammaccata» erano stati tanti che le ferrovie si erano viste costrette ad assoldare cowboy del West Side, che dovevano cavalcare davanti ai treni sventolando una bandiera decorata con una testa di morto per convincere la gente a farsi da parte più in fretta possibile. Ritenendo più prudente elevare le rotaie che lo stile di vita dei poveri, i riformisti avevano allora fatto passare i treni al di sopra delle strade, e ora la Strada della morte era piena solo degli anodini fischi del vapore delle locomotive. Era attraverso quella recentissima riforma sociale che la gente della compagnia sperava di fare arrivare le nuove macchine che avrebbero spezzato le reni allo sciopero.

John ebbe la sensazione simile a un sogno di uscire da una lunga galleria buia: non era mai stato tanto euforico in vita sua. Gli intrugli da suicidi che serviva McGurk nel suo bar non erano né potenti, né accecanti quanto l’energia di quel corteo diretto ad assestare l’ultimo colpo vittorioso agli sfruttatori. John controllò l’impeto soverchiante di correre in prima linea per prendere sotto braccio Sullivan e gli altri prodi laburisti. Invece rimase indietro e si arrampicò su un precario bidone dell’immondizia abbandonato a se stesso, facendo scappare i ratti dalle loro tane, per passare in rassegna quella marea ondeggiante di umanità. Il cuore della metropoli. Il cuore è un muscolo grande come un pugno, pensò tra sé. Un pugno capace di abbattersi sull’intero sistema corrotto. Lo stesso sistema che affamava suo figlio e metteva a repentaglio il suo matrimonio. Fu tenuto a battesimo dalla vista di tanta potenza pura e primordiale. Da dov’è spuntata tutta questa gente? si chiese. Non osando battere le palpebre nel timore che fosse solo un miraggio creato dal soffocante smog cittadino dentro al deserto di strade lastricate, John immaginò che fossero arrivati dai quartieri vicini, fuggendo dalle case operaie come gli antichi schiavi dall’Egitto.
Saltò giù solo quando vide Flynn dall’altra parte della strada. Si infilò in quella fiumana di gente temendo di esserne trascinato via ma inebriato dalla sua potenza, ben sapendo che sarebbe potuto annegare nell’ondata della sua rabbia e della sua missione collettiva. Mentre si faceva strada tra gli slogan della folla per raggiungere Flynn, l’ostilità che aveva provato in precedenza nei confronti dell’uomo si spense: in lui ora prevaleva solo un nobile senso di solidarietà. Attraversato il corteo con passo sicuro, John strinse la mano di Flynn, ancora in livrea, e gli mise il braccio sulla spalla mentre si lasciavano trascinare dalla corrente. Flynn gli ricambiò il sorriso e i due si diressero a passo di marcia verso la Sopraelevata e verso la Storia.

Quando John arrivò alla meta i binari della Highline erano nascosti alla vista, come vette di monti, da nuvole di vapore, e lui di treni ne capiva quanto bastava per sapere che erano fermi con il motore al minimo: le colonne grigie si levavano in alto per poi ricadere, in rivolta contro l’arresto della locomotiva. John soffriva quasi a vedere un motore fatto per muoversi trattenuto e intrappolato come una tigre in gabbia.
E anche se non sentiva più la voce di Sullivan, sapeva che l’oratore stava incitando gli uomini ad arrampicarsi sui binari e a distruggere le macchine. I sensi di John erano in perfetta armonia con la massa umana. Capiva senza sentire, senza vedere, basandosi soltanto su un sentimento universale. Percepiva la volontà, i sogni infranti e le frustrazioni della gente. Lui stesso, che aveva tanti sogni, che aveva prestato fede a tante promesse, stava realizzando qualcosa di simile al destino mentre aspettava il suo turno di inerpicarsi fino alle rotaie. Tutto questo condivideva con la folla crescente.
Ora si stava arrampicando al di sopra delle strade ed era all’altezza degli edifici che non poteva mai vedere per intero durante le sue quotidiane marce di picchettaggio. Immaginava quegli uomini dai gemelli in platino e ambra guardarlo dietro il loro cognac attraverso le finestre degli uffici. Ora, solo per una volta, poteva guardarli in faccia, dritto negli occhi, e fargli vedere cosa significava essere un uomo, un uomo che sapeva cos’era il lavoro, cos’era la sofferenza, cos’era la fame. Il tipo di uomo che poteva guardare quei ricchi bastardi negli occhi e sputare. Gettato un ultimo sguardo ai ciechi occhi del Moloch, si girò verso la struttura del nemico innanzi a lui: le enormi macchine spaventose erano incatenate ai pianali del treno.
I fuochisti erano scesi dalla locomotiva per unirsi agli altri operai. Ferrovieri, operaie delle fabbriche tessili, scioperanti, immigrati, socialisti e tutto il cuore della città avevano unito le forze, scatenando la loro furia. John non poteva negare che quelle macchine intimidissero per massa e complessità. Erano formate da torri di impalcature cui erano attaccate pulegge che sporgevano come braccia da un centro rigonfio. Sembravano giganteschi ragni d’acciaio che aspettassero solo di ritornare in vita giù al porto e di intessere la loro efficiente tela per intrappolare, strangolare e soffocare lo sciopero. Quelle macchine erano una pura e gelida minaccia. Erano creature fatte di denaro, potere e condiscendenza. John non aveva le conoscenze tecniche per capire in che modo quei pochi congegni a vapore, per quanto enormi, avrebbero potuto sostituire le migliaia di uomini che lavoravano al porto, ma poteva comunque capire che erano un rischio palese. Gli bastava sapere che se i padroni le stavano facendo arrivare, lui doveva cercare di fermarle. Quelle macchine senza prole, senza mogli e senza sogni lo minacciavano. Era un istinto animale: aveva sentito un brivido lungo la schiena quando dall’acciaio la luce del sole di tarda primavera si era riflessa sul suo volto.
Come se fosse spuntato dal nulla, sui binari apparve un fascio di leve di legno che furono subito distribuite fra i presenti. La folla esultava, urlando più forte di quanto avrebbe fatto ad ascoltare il più convincente dei discorsi di Sullivan. Il tempo della retorica, della politica e dei sogni era passato: era venuto il momento di spezzarsi la schiena lavorando per la vittoria. John era fiero di essere all’altezza di quel compito. Lanciò alla folla il soprabito, quello che sua moglie aveva passato due notti a rammendare e cucire, e si dedicò con quanta forza aveva in corpo al pezzo di legno che aveva innanzi a sé. I più giovani infilavano le leve sotto le macchine, conoscendo il punto esatto in cui avrebbero tratto maggiore energia dalla nuda forza degli uomini. Lui non era dei più grossi, dei più giovani o dei più robusti tra i compagni della sua squadra, ma in compenso poteva mettere in gioco quello che sperava fosse il cuore. Il cuore è un muscolo grande come un pugno, si ripeteva mentre lottava con la ruvida sbarra di legno.
Si udì uno sparo seguito da un ruggito. Non era un urlo di paura o di avvertimento ma un grido potente, barbarico, quasi bestiale di battaglia. Una massa tuonante invadeva le strade. Girandosi, gli uomini sulle rotaie videro la folla respingere una linea irregolare blu scuro. In un batter d’occhio un gruppo di cuochi accorse ad aiutare un giovanissimo tornitore ricoperto di sangue mentre un manipolo di ferrovieri inseguiva gli agenti in ritirata impugnando aste di bandiera e tubi metallici. John e i suoi compagni gridarono esultanti per la vittoriosa difesa e poi si rimisero al lavoro.
La prima macchina si staccò dai suoi ormeggi e scivolò silenziosa tra i lenti flutti dello Hudson, affondando come un’ancora. John lo venne a sapere soltanto perché sentì la folla due piani più sotto esplodere in grida esultanti, che gli diedero ancora più energia. Sentì qualcuno urlare qualcosa in tedesco e subito dopo i cavi guida si staccarono con uno scatto sonoro, frustando l’aria e sibilando proprio accanto all’orecchio di John mentre un altro mostruoso congegno precipitava in avanti. Si udirono altre grida di gioia, poi un altro tonfo. John spinse più forte, poi il baccano di un altro grido di giubilo della folla fu coperto da un forte schianto. Il lungo palo alla sua sinistra si piegò fino a spezzarsi. Cinque o sei uomini che stavano facendo forza sulla sbarra di legno furono sbattuti a terra tra i binari. Sembrava che la mostruosa macchina avesse preso vita e stesse rispondendo ai colpi degli operai. I meno convinti lasciarono cadere le leve e scapparono via di fronte all’ombra discendente della macchina che per un istante aveva bloccato il sole. Il congegno si inclinò dalla parte di John. Un russo barbuto lo afferrò e lo tirò via dalla leva. John sentì la macchina scivolargli accanto prima di rotolare sulla strada più sotto invece che nelle acque del fiume. La folla, avvertita da quelli di sopra, fece spazio quanto bastava alla morente creatura d’acciaio per schiantarsi sul selciato. Gli operai sentirono la strada vibrare attraverso le logore suole delle loro scarpe. L’ultima macchina era sfuggita al fiume ma era perita in strada.
I frantumi della carcassa metallica si sparsero sull’acciottolato, e quando la polvere si posò la folla arretrò inorridita; dalla sua posizione, John poté vedere perfettamente i cadaveri maciullati che erano nascosti nella pancia di quel cavallo di Troia in acciaio. Vide dieci o più cinesi coperti di sangue rappreso, per metà dentro e per metà fuori dal guscio metallico. Erano quasi tutti morti, ma alcuni ancora si contorcevano nel groviglio di ferro e membra spiaccicate. Un uomo gemette mentre ricadeva piano a terra lungo l’asta d’acciaio che gli spuntava dal petto. John capì che le altre macchine, quelle che stavano colando a picco sul fondo dello Hudson per non vedere mai più la luce del sole, contenevano orrori invisibili anche peggiori.
Nessuno si avvicinò. Tutti loro avevano visto morti private: in quella città era impossibile non familiarizzare con la morte, ma quella era una cosa diversa. C’era una differenza di grado e di atrocità nel sapere che cento altri uomini o anche più erano intrappolati in una macchina priva d’aria senza che nessuno potesse vederli e incoscienti del loro destino. Uomini che come John volevano solo trovare un lavoro. Uomini con una famiglia, una moglie e una prole. Uomini che nutrivano sogni segreti e a cui ora erano state messe sotto silenzio persino le urla tra i placidi flutti dello Hudson: sotto silenzio, sì, tranne che nella mente di John.
L’uomo guardò la folla cominciare a disperdersi, come la nebbia in un mattino d’estate. Erano arrivati uniti, ma ora tutti se la svignavano alla spicciolata. Ognuno andò via a capire, a razionalizzare e a negare di aver svolto un ruolo in quel disastro.
John scese giù dalla ferrovia come se fosse in trance. Quando mise piede a terra assieme agli altri, nelle strade non c’era più anima viva. Cercò Sullivan con lo sguardo, ma anche lui era svanito. John era solo, ancora una volta.

Un poliziotto rosso di capelli stava stringendo il suo bastone alla gola di Gadget. Lei continuava a dimenarsi, rifiutandosi di mollare il bottino. Neal si guardò attorno per vedere se c’erano altri agenti: questo non lo avrebbe spaventato, ma voleva sapere che cosa lo aspettava. Non essendocene nessuno in vista, attaccò lo sbirro con efficienza brutale. Quello cadde a terra come un sanguinolento sacco di patate sotto la pioggia di colpi del manico d’ascia di Neal. Un’altra tacca da aggiungere alla sua collezione, ma ci avrebbe pensato più tardi.
Neal afferrò la borsa di Gadget, che ancora ansimava, e fece per allontanarsi.
– Ehi, che stai facendo? – gridò Gadget a Neal mentre lui scavalcava il poliziotto atterrato.
Lui non sentì il bisogno di rispondere.

Tornato al palco a conchiglia, Neal guardò dentro la borsa: veniva dal Pacifico meridionale ed era piena di arance. Sentì i raggi del sole posarglisi sulla pelle mentre permetteva al succo di colargli fino al mento. Chiedendosi se l’Orchestra Catastrofonica si fosse presentata, era ripassato da Tompkins Square, e non si era stupito a vedere che i suoi amici non c’erano. Nella piazza non c’era quasi nessuno. Mentre mangiava le sue arance seduto sul palco a conchiglia, vide John che senza cappotto si trascinava attraverso il parco. Neal quasi non lo riconobbe.
John stringeva ancora fra le dita la bandiera sanguigna, ma il suo viso ora era esangue. Sembrava a pezzi, come se dentro di lui qualcosa non riuscisse più a rimettersi a posto.
Neal aveva visto la macchina schiantata e la carneficina al suo interno mentre tornava al parco. Allora aveva capito che anche se era solo primo pomeriggio, la giornata era finita.
John riconobbe Neal da prima e gli si avvicinò. Non riusciva ad accettare quello a cui aveva appena assistito. Doveva disfarsi di una parte del suo fardello.
– Hai visto? – chiese.
– Sì, quasi tutto, – disse Neal gettando una buccia d’arancia verso un cestino dell’immondizia senza guardare.
– È stato… Stavamo facendo qualcosa… – farfugliò John con lo sguardo fisso sui suoi calzoni strappati.
– Già, bella cosa avete fatto, – rispose Neal asciugandosi le mani appiccicose sui pantaloni di pelle.
– No, voglio dire… non doveva andare a finire così. Noi… – disse John tentando di fermare i pensieri.
– E come altro pensavi che dovesse andare a finire?
John avrebbe voluto rispondere a quel gigante sorridente, ma non ci riuscì. Si limitò a fissarlo, poi girò i tacchi.
– Ehi, amico! – tuonò Neal.
John si voltò giusto in tempo per afferrare un’arancia.
– Per tuo figlio, – disse Neal prima di alzarsi e andarsene per la sua strada.
Alle sue spalle i volantini appallottolati furono spazzati via dalla tiepida brezza della primavera che soffiava nel parco vuoto.

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Chananke: Helen
di Ginox

Il sarto

Oggi per le cinque ho da rammendare una camicia, poi l’orlo ai pantaloni della signora Luini, che viene a prendere il the e ho da prepare i biscotti. E devo fare gli gnocchi, da condire con il sugo. Alle cinque mi portano un cappotto da cucirgli l’imbottitura e una bottiglia di vino per la cena, ma devo comperare il cavatappi e pulire i bicchieri del servizio. L’orlo a canarino andrebbe sempre imbastito con gli spilli da un lato e dall’altro, per controllare che siano della stessa lunghezza. E’ importante che siano simmetrici altrimenti le gambe non si muovono assieme, avanti una e poi l’altra e via cosi’, ma vanno invece ognuna in direzioni diverse, e non si riesce mai ad arrivare a destinazione. Mi tocca
correre perche’ mi parte il treno, parte alle cinque, se lo perdo devo prendere la corriera, alle cinque e cinque, se perdo anche quella e’ finita, un solo minuto di ritardo compromette secoli di sacrifici, un ritardo e’ una colpa gravida di conseguenze ed irreparabile.
Ogni tuo gesto riuscira’ a mancare l’appuntamento con i gesti altrui, vedro’ annegare la madre nel pozzo, il padre riverso al suolo ai piedi della scala, la sorella con le labbra livide e viola alla luce della candela sul letto del fattore.

I polsini della camicia erano troppo larghi, anche i pantaloni non vestivano bene, forse ero dimagrito. I digiuni per la quaresima, forse avevo ecceduto. E che amavo sentirmi leggero, senza peso, un piacevole senso di vertigine e ben predisposto all’euforia dell’estasi.
Presi ago e filo e incomincia a cucire, prima che si facesse troppo tardi. Uscii di casa portando con me il necessario per il rammendo, i punti erano solo imbastiti, meglio non rischiare. Amo sentire scivolare i vestiti sopra la pelle, ma non scoprirmi.

Un giorno incontrai una donna con un abito disegnato addosso, era riscaldata da un mosaico di immagini. Aveva un veliero sulla coscia sinistra, ed una donna incatenata ad una palma sulla destra, delle rondini sopra i seni ed in mezzo una scritta “helen”. C’era un cuore trafitto intorno al capezzolo sinistro con la sigla “roy”. Un vulcano sulla schiena e delle stelline nere appena al di sotto delle spalle, una farfalla ed una pantera appena piu’ in alto del pube, e betty boop ammiccante sul gluteo destro, un ventaglio sul sinistro. Dal collo del piede due occhio fissavano il mondo e sul polpaccio al di sopra delle caviglie un veliero, sommerso dalle onde, e poi la scritta “last trip”. E tra le rondini portava
inciso, “pa’ de chance”. Nel sonno qualche volta sussurrava “chananke”, una pregihiera nella sua lingua forse, non so.
Per amarla dovetti pagare, per scoprire il mondo che portava addosso volle del denaro, e quando provai a sfilargli il reggicalze forte del diritto acquisito dal soldo, scoprii che anche quello era disegnato sul suo corpo. Non sarebbe mai stata nuda di fronte a me, neppure per un istante avrei potuto svestirne l’anima protetta dagli amuleti di inchiostro.

Questi vestiti non vogliono stare, scivolano via. Sono stato nudo una volta di fronte a lei, e rideva. Io non ho la corazza, l’armatura di inchiostro, non posso lasciare scivolare via i vestiti.

Avevamo un appuntamento, per amarla dovevo segnarmi sulla sua agenda, era alle 6 e 30, arrivai alle 6 e 35, lei mi aspettava. Betty boop danzava ad un metro da terra, seguiva la cadenza del moto oscillatorio impresso dal pendolo realizzato dal lenzuolo fissato alla trave e dal peso dei tatuaaggi di helen fissati al suo corpo.

Il garzone

Lavoravo in bottegha dal sarto in quei giorni, si’.
Quel lunedi’ arrivo in negozio pallido, sudato, ricordo di aver guardato l’ora, erano le cinque meno cinque. C’era anche la signora Luini. Disse che doveva prendere un treno, oppure la corriera, non capii, perche’ parlava confuso. Saltellava da un piede all’altro, in maniera ritmica. Lo faceva spesso, la chiamava la cadenza, una sorta di melodia che aveva in testa, e che diceva gli dava il ritmo del lavoro. Faceva caldo quel giorno, gli chiesi perche’ non si toglieva il cappotto. Diceva non voleva scoprire la pelle, poi ando’ giu’ in terra. Chiamai il medico e intanto
provai a toglierli il cappotto per infilarglielo sotto la testa, ma era cucito, cioe’ cucito addosso, assieme alla pelle.
E quando glielo levarono, si trovo anche il cessato era cucito, ma in profondita’, aveva ferite aperte un po’ ovunque. Il medico dice un collasso, il cuore era debole di suo, e si stava dissanguando.
Era bravo il signore, sa, tanto bravo. Ma non stava bene, mai stato bene. Non era felice, mai stato felice.


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