Perchè lo steampunk conta (ancora)

Ecco il secondo articolo sulle sorti dello steampunk. Altrettanto ricco, anzi..

 

Perchè lo steampunk conta (ancora)
di James Schafer e Kate Franklin
traduzione di Reginazabo

“Non c’è nulla di meglio che immaginare altri mondi
per dimenticare quanto sia doloroso quello in cui viviamo.
Almeno così pensavo allora. Non avevo ancora capito che,
ad immaginar altri mondi, si finisce per cambiare anche questo”
Umberto Eco, Baudolino

Siamo due amministratori di Steampunk Facebook, una delle  più grandi comunità (virtuali) di persone che si identificano come steampunk. Non c’è modo di censire in maniera attendibile le opinioni dei nostri centomila seguaci, ma in base alla nostra percezione assolutamente soggettiva del gruppo ci siamo convinti sempre di più che come movimento di rivoluzione sociale lo steampunk abbia fallito. A essere onesti c’è chi ha sostenuto, a volta con veemenza, che un simile programma rivoluzionario non fosse mai stato tracciato, ma noi eravamo tra i pochi che volevano crederlo. Non siamo mai stati convinti che la gente fosse attratta dallo steampunk solo perché faceva fico e perché era un’ambientazione meravigliosa per i romanzi d’avventura e i giochi di ruolo.
Credevamo invece che lo steampunk dovesse il suo fascino all’intrinseco rifiuto della cultura consumista usa e getta e al dominio esercitato sulla società contemporanea da baroni ladri del giorno d’oggi. Avevamo la sensazione che molti, anche se non erano in grado di enunciarlo, stessero abbracciando lo steampunk per far fronte a quel disagio pervasivo che prova quasi chiunque sia cresciuto in occidente seguendo una dieta a base di idee come l’“obsolescenza programmata” e l’“assistenza sanitaria a pagamento”. Una dieta di idee promosse da un’etica capitalistica ottocentesca imbizzarrita a contatto con la tecnologia del ventunesimo secolo.
Francamente, lo pensiamo ancora. Purtroppo non possiamo negare la realtà che questo non ha creato una comunità di steampunk che aderiscono seriamente a una filosofia rivoluzionaria, o anche solo particolarmente progressista. In giro ci sono certamente steampunk che si battono per cause giuste, e vi sono alcune sovrapposizioni di rilievo tra lo steampunk e i gusti estetici di molti sperimentatori sociali e artisti controculturali, ma questo non significa che gli steampunk come “gruppo d’interesse” riconoscano seriamente un concreto programma progressista.
Non è neanche chiaro quanto peso venga dato attualmente alla letteratura antiautoritaria (Warlord of the Air di Michael Moorcock, La macchina della realtà di William Gibson e Bruce Sterling ecc.) che ha attirato verso il movimento molti esponenti della vecchia guardia dello steampunk, con la loro irriverenza nei confronti degli aristocratici, degli industriali, del militarismo, dell’imperialismo e del bieco mercantilismo.
Anche quando lo steampunk continua a essere una cultura letteraria, molti dei suoi libri hanno l’atmosfera dei romanzetti e delle avventure pulp (i libri del Protettorato del parasole di Gail Carriger, Hellfire Chronicles di Geoff Falksen, Retribution Falls di Chris Wooding ecc.): sono divertenti, ma il loro messaggio sociale è molto più ambiguo. E in tutta sincerità si direbbe che ad attrarre le nuove leve siano tanto (o più) i costumi (di aristocratici, industriali, poliziotti militari e imperialisti, ma anche di rivoluzionari e pirati) quanto i libri di ogni tipo. Questa tendenza è accentuata ulteriormente dall’impegno incessante dei negozi indipendenti e multinazionali per battere cassa sul fascino dello steampunk. In breve, quando i produttori vestono Justin Bieber con un costume steampunk, possiamo star certi che se lo  steampunk ha mai avuto artigli che spaventavano il sistema, gli sono stati asportati da tempo.
Renderci conto di queste cose ci ha costretti a un lungo esame di coscienza. I nostri gusti estetici sono probabilmente più vicini allo steampunk che a qualunque altra tribù, ma questo basta a giustificare le ore che passiamo ogni giorno a produrre e a narrare contenuti per la comunità steampunk? Tutto questo ha un senso? Quello che facciamo rende il mondo un luogo migliore o sarebbe meglio fare campagna per i candidati alle elezioni locali o, se è per questo, limitarsi a leggere e a giocare ai videogiochi? A queste
domande abbiamo saputo dare alcune risposte inaspettate che vorremmo condividere nelle pagine seguenti, ma la sintesi è: sì, lo steampunk conta ancora perché ci permette di immaginare il cambiamento, e questo è il passo che più serve a tradurre quel cambiamento in realtà.
Per puro caso ci siamo imbattuti due volte, in rapida successione, in un’idea del genere, che abbiamo  ritrovato in luoghi situati in punti molto diversi dello spettro politico. Per cominciare, nel suo An Optimist’s Tour of the Future Mark Stevenson ha affermato che la società contemporanea è stata schiacciata da visioni distopiche e ciniche del futuro, e ha sostenuto in maniera piuttosto eloquente che se tutte le
visioni che abbiamo dell’avvenire sono deprimenti, è inevitabile che vivremo in quel tipo di mondo. Forse non avremo automobili volanti anche se le immaginiamo, ma se non siamo in grado di concepire un certo tipo di futuro, è sicuro che non lo realizzeremo mai. Stevenson è un uomo beffardo, ma a quanto pare si guadagna da vivere tenendo corsi motivazionali per dirigenti e affermando in generale che tutto il sistema
del dominio aziendale oppressivo verrà a capo dei propri capricci.
All’altro capo dello spettro si trova David Graeber, che è stato scaricato dall’università di Yale perché era attivo nei sindacati e ha dato un contributo fondamentale alla nascita del movimento Occupy Wall Street
(OWS). Graeber sostiene che negli ultimi decenni la vittoria più rilevante del capitalismo globale non è stata materiale ma psicologica, in quanto ci ha privati della capacità di immaginare un mondo in cui i plutocrati delle grandi aziende non abbiano preso il sopravvento. Perciò, afferma, per disfarci del loro dominio la prima cosa da fare è concepire un mondo, o molti mondi differenti, in cui le cose si fanno diversamente. Entrambi gli autori si basano su semplici argomentazioni, più vecchie ed eleganti, di
filosofi della storia e delle scienze come Michel Foucault, che ha dimostrato che la storia delle scienze occidentali (di cui la fantascienza, sia che narrasse di manticore mangiatrici di uomini o di dirigibili, ha
sempre fatto parte) non è una narrazione univoca di precisione crescente, bensì una serie di violenti spostamenti del limite immaginato del possibile. Il messaggio per una fantasia animata da motivazioni sociali è il medesimo: se siamo infelici di come vanno le cose, o della direzione che crediamo abbia imboccato la società, dobbiamo visualizzare mete alternative.
Non si tratta di semplici teorie impalpabili: il mondo reale è pieno di casi in cui l’immaginazione dà forma alla realtà. Dal punto di vista tecnologico, creiamo solo quello che crediamo sia possibile. Morse realizzò un telegrafo funzionante e i fratelli Wright presero il volo sul Kitty Hawk non come inventori pazzi e isolati dal mondo, ma in una marea di concorrenti, i quali erano tutti in balia di uno spirito del tempo che riteneva quelle invenzioni possibili. A volte queste conoscenze sono anche più concrete, come in uno dei nostri esempi preferiti: l’alfabeto creato dal popolo Cherokee. Questi innovatori non sapevano leggere le lingue europee, ma erano entrati in contatto con europei che usavano la scrittura e quindi sapevano che quella tecnica era possibile. Ispirati, ne inventarono una propria. Le macchine del tempo, gli spostamenti più veloci della luce e l’intelligenza artificiale saranno tanto al di là delle nostre possibilità quanto i telefoni, i sottomarini e gli aeroplani lo erano per da Vinci, ma se non consideriamo la possibilità di queste tecnologie, possiamo star certi che non le creeremo.
La storia politica e sociale trabocca di casi paragonabili. Un tempo era certo che le donne e/o i non bianchi non sarebbero mai state in grado di rivestire cariche politiche/esercitare la medicina/diventare soldati/ecc.,
ma poi qualcuno ha ipotizzato che forse avrebbero potuto farlo. Poi molte persone hanno preso in considerazione questa possibilità. Quindi la possibilità si è trasformata in esperimento. Infine è diventata reale.
Nelle settimane che hanno preceduto Occupy Wall Street, le parole d’ordine politiche predominanti erano debito e deficit, mentre nelle settimane successive sono state lavoro e disoccupazione. Resta da vedere se questo cambiamento del discorso, del possibile immaginato, darà luogo a un mutamento politico concreto. Se a ogni modo una società non parla nemmeno della creazione di posti di lavoro e della corruzione del governo da parte delle aziende, di certo non affronterà quelle questioni. Siamo convinti che OWS abbia ricevuto tanto consenso innanzitutto perché ha permesso a una generazione uscita da un decennio di disperazione e avvilimento di capire che si potevano avere obiettivi diversi e che nel mondo il potere poteva essere distribuito diversamente.
Purtroppo, l’immaginazione al servizio del cambiamento può operare anche in senso negativo. Se aveste chiesto alle menti migliori di inizio Ottocento dove pensavano che si stesse dirigendo la loro civiltà, vi
avrebbero parlato di cosmopolitismo, internazionalismo, fratellanza basata su interessi comuni, anticlericalismo e trionfo della ragione. Alla fine del diciannovesimo secolo, per una serie di ragioni complesse, aveva preso il sopravvento un insieme di ideologie del tutto diverso. I più brillanti immaginavano il mondo come un luogo suddiviso in aree di controllo basate su imperi etnici. L’idea che la differenza più importante fra gli esseri umani consistesse nella loro origine nazionale/razziale era così radicata che quando scoppiò la prima guerra mondiale perfino i socialisti europei, uomini e donne che
avevano predicato la fratellanza internazionale dei lavoratori, votarono (con poche eccezioni) per l’entrata in
guerra. Si potrebbe sostenere che l’incapacità di resistere alle derive belliche sia stata un fallimento della loro visione, che gli impedì di vedere il mondo in termini diversi dalla lotta all’ultimo sangue tra identità nazionali mitologiche e perlopiù costruite a tavolino e i loro “nemici” altrettanto artificiali.
In quasi tutti i casi descritti sopra, la transizione dalla fantasia alla realtà è stata amorfa e indiretta. Ma esiste anche una lunga tradizione di argomentazioni programmatiche più esplicite che risalgono a ben prima
dell’Utopia di Tommaso Moro e abbracciano i movimenti più disparati come le varie comuni reali e immaginarie del diciottesimo e del diciannovesimo secolo (la Pantisocrazia di Coleridge, la Brook Farm di
Hawthorn ecc.), il movimento hippie della metà del ventesimo, le rivoluzioni interne (tra cui quella russa è solo la più famosa) e quelle contro il dominio coloniale (in America, in India, ad Haiti ecc.). Questi
progetti utopici non devono necessariamente giungere a realizzare i loro obiettivi: il mondo immaginato da Marx che innescò la Rivoluzione d’ottobre e iniziò con grandi speranze, ad esempio, si è concluso con la
tirannia totalitaria e burocratica dell’Unione Sovietica. Ma non tutti sono falliti. È difficile immaginare il capovolgimento dell’aristocrazia della Francia di fine Settecento senza la precedente generazione di filosofi
illuministi che avevano concepito una repubblica caratterizzata dalla garanzia di diritti umani universali.
La fantascienza ha influito a lungo sull’immaginazione popolare del possibile, indicando sia percorsi auspicabili che altri da rifiutare. Jules Verne, il santo proto-steampunk, si situa decisamente nel primo campo e di frequente gli si attribuisce l’ispirazione di quasi tutte le grandi invenzioni tecnologiche del ventesimo secolo. Ma Verne fu solo il più celebre di un vasto numero di futurologi ottocenteschi che specularono sulle macchine situate subito oltre il loro orizzonte temporale (si pensi ad esempio a  Steampunk Prime di Ashley e a The Tale ofthe Next Great War di Clarke, o all’eccellente serie “Victorian Hugos” di Jess Nevins). In quasi tutti questi casi, probabilmente non è possibile stabilire un nesso causale
fra uno di questi scritti e le ricerche effettuate per rendere fattibile qualcosa di simile alle loro visioni, ma non è difficile immaginare che queste opere abbiano contribuito all’idea generale che una certa invenzione fosse possibile. D’altro canto, se Verne sembrava concentrarsi maggiormente sulla tecnologia in quanto tale, H.G. Wells, da eclettico qual era, si interessò di più all’interazione della tecnologia con la civiltà e cercò di usare la fantasia come strumento per scrivere storie fantastiche sul mondo d’oggi. Lo stesso si può dire di E.M. Forster, che si descriveva come “un liberale … che ha visto il liberalismo cedergli sotto i piedi” e il cui racconto La macchina si ferma dovrebbe figurare in qualsiasi libreria steampunk. Queste visioni distopiche fungevano più da segnali d’allarme e da commento sociale sull’epoca contemporanea che
da tabelle di marcia, e a tale proposito ci viene in mente George Orwell, che in 1984 ha scritto: “Se vuoi un’immagine del futuro, immagina uno stivale che schiaccia una faccia umana… per sempre”. Probabilmente non vi è mai stata un’evocazione più efficace di un mondo possibile, o un appello più sonoro a evitare che si avveri, di questa ossessione orwelliana. Gli scrittori sono frutto del loro tempo, quindi non soprende che il ventesimo secolo abbia dato alla luce tante distopie quante utopie fantascientifiche; sfortunatamente, non si può fare altro che elencare tutti i mondi che non vogliamo creare e realizzare distopie per rivelare gli incubi che incombono sulle visioni politiche contemporanee. Ma se la fantascienza vuole davvero contribuire a migliorare il mondo, dovrà fare ben più che terrorizzarci con visioni  apocalittiche: dovrà trovare un equilibrio fra distopia e utopia. Con l’avvento dei computer simili a
divinità del genere della post-singolarità, sono tornate di moda le visioni ottimistiche del futuro. Ma queste fantasie non ci forniscono molti consigli oltre a “aspettate con ansia che gli informatici creino la prima
intelligenza artificiale”. Pregare per l’arrivo delle macchine salvatrici non è molto più utile dei sogni utopici costruiti sulle fondamenta sgretolate del nostro sistema attuale. Dove sono le visioni di un futuro diverso e
migliore che potrebbero essere realizzate da persone come noi? La nostra risposta, naturalmente, è che si trovano, o almeno potrebbero trovarsi, nello steampunk.
Se a prima vista lo steampunk appare ossessionato dai suoi gadget e dalla sua moda, al centro c’è un genere che tratta di persone e di società evidentemente correlate alla nostra. Non è (almeno non principalmente) un genere incentrato su imperi intergalattici, principesse streghe o alieni pressoché onnipotenti, e nemmeno sulle intelligenze artificiali: piuttosto, lo steampunk si concentra sulla reazione degli individui a una rivoluzione tecnologica e sugli aggiustamenti sociali che si verificano in mondi contraddistinti da notevoli asimmetrie nella distribuzione della ricchezza e del potere. Se è vero che i pirati (analoghi agli hacker, i loro precursori cyberpunk) sono apprezzati protagonisti schierati contro il sistema, l’azione ruota più di frequente attorno a operai relativamente insignificanti (si veda The Dream of Perpetual Motion di Dexter Palmer e Boneshaker di Cherie Priest). E quando al centro della narrazione ci sono esponenti dell’élite come scienziati (La macchina della realtà) e aristocratici (The Strange Affair of Spring Heeled Jack di Mark Hodder), spesso questi sono descritti come disadattati in mondi resi instabili da strane tecnologie. Anche quando ci sono aeronavi e pistole a raggi, o perfino magia e mostri, i mondi descritti e i loro abitanti ci risultano tanto familiari che possiamo immaginare che il loro mondo sia il nostro o, forse cosa ancora più importante, che si possa ricreare il nostro mondo in modo che diventi il loro. Perciò l’effetto è così potente quando gli autori oltrepassano i confini di quanto è socialmente “possibile”, come accade in due dei nostri romanzi steampunk preferiti.
L’era del diamante di Neal Stephenson si ambienta in un futuro prossimo in cui i progressi della nanotecnologia spingono e permettono a una ristretta élite di steampunk di porre in atto la sua visione di un mondo neovittoriano, con tanto di nuova regina Vittoria e di rapporti coloniali improntati allo sfruttamento dei vicini asiatici e delle comunità subalterne che producono i beni di lusso artigianali che i suoi esponenti tanto apprezzano. A un primo sguardo il romanzo sembra un inno a questi “vitto” e al loro stile di vita innovativo, e non c’è dubbio sul fatto che se potessimo fare in modo che nel futuro “noi” fossimo i vitto e non i loro sudditi, per “noi” quello sarebbe un mondo magnifico da imitare. Ma si può aggiungere che le parti più avvincenti del romanzo sono ambientate nelle periferie create dall’impero consumista dei vitto. In particolare, nel tumulto generato nella società dalla rinascita della Cina, dove si sta cercando di liberare i mezzi di produzione dai blocchi imposti dall’élite e di trasferirli a tutti, con risultati potenzialmente disastrosi per l’ordine sociale. Nel frattempo uno dei fondatori più iconoclasti dell’impero neovittoriano tenta di creare un sistema pedagogico che insegni alla nuova generazione a essere sovversiva e responsabile per la comunità. È in queste descrizioni che troviamo un modello alternativo per un nuovo mondo di “costruttori” e innovatori.
Nella sua trilogia del Bas-Lag, in particolare nel secondo (La città delle navi) e nel terzo libro (Il treno degli dei), China Miéville ci presenta società assolutamente alternative. La città delle navi tratta di una repubblica informale di pirati che hanno creato una società eterogenea la cui cultura sociopolitica rispecchia l’isola artificiale di navi d’ogni tipo su cui vive la comunità. In Il treno degli dei troviamo invece una comune rivoluzionaria creata da ferrovieri fuori del comune, dalle sex worker che in precedenza venivano usate per mantenerli docili e dagli schiavi impiegati come crumiri. Tutti insieme danno vita a una società mobile che vive grazie al treno di cui si sono appropriati (e se nessuno di questi scenari dovesse attirare il vostro interesse, pensate anche che Miéville condisce le sue storie con una gamma incredibilmente variegata di matriarcati, cleptocrazie, menti alveare e tirannie più convenzionali). La scrittura di Miéville è più decisamente prescrittiva di quella di Stephenson, e quasi si riesce a immaginare lo scrittore mentre ricerca in ognuna delle sue società modello un possibile percorso verso una trasformazione reale della società globale. Mentre si leggono le loro descrizioni, ci si scopre a fare la stessa cosa: si tende a rifiutarle quasi tutte di primo acchito, ma se ci si lascia andare si tornerà a rifletterci sopra e a chiedersi se non
possano essere plausibili. Potrebbe succedere qui? Potrebbe esistere un mondo in cui tutto il potere non appartiene a una ristretta élite di corrotti?
I romanzi fin qui citati hanno tutti in comune il fatto di non essere storie alternative. Per usare la  definizione molto citata, ma in definitiva tagliata con l’accetta, di Falksen, secondo cui “lo steampunk è fantascienza vittoriana”, si possono di certo evocare mondi alternativi (come hanno fatto Moorcock, Gibson e Sterling quando hanno dato vita allo steampunk moderno e Cherie Priest, Scott Westerfeld e molti altri dopo di loro con livelli variabili di successo), ma in certa misura quei mondi saranno impigliati nelle contraddizioni sociali del passato. Questo li rende ideali per problematizzare la nostra storia vittoriana (e dunque il nostro presente), come alcuni di questi scrittori hanno fatto, scagliandosi nei loro romanzi contro l’ingiustizia sociale e l’imperialismo. Ma molto più difficile è proporre alternative che fungano da modelli desiderabili, a meno di non riscrivere la storia fino al punto di non potersi più distinguere dai romanzi ambientati in un universo alternativo, per quanto allegramente brulicante. Per analogia, la riscrittura della storia con l’inclusione di apprezzate figure moderne come il topos della “bisbetica emancipata” e di rappresentazioni moderne o postmoderne della classe, della razza, della nazionalità o del genere produce narrazioni che, pur criticando la nostra storia e il nostro presente attraverso una morale contemporanea, non riescono più di tanto a evitare di riconfermare le attuali costruzioni della società e del sé. Lo spettro è naturalmente ampio, la storia alternativa si confonde con il fantastico ed è concepibile che qualcuno possa scrivere un romanzo storico che metta in dubbio non solo i costrutti identitari del passato, ma anche quelli attuali nel modo in cui il classico della fantascienza La mano sinistra delle tenebre di Ursula K. LeGuin ha messo in discussione idee radicate sulla natura del genere nella società. Quel che vogliamo dire è che se l’applicazione dell’estetica steampunk alla storia è un modo affascinante di comprendere e criticare il nostro presente, crediamo che l’applicazione di questa estetica innovativa e insoddisfatta a Mondi nuovi sia un modo migliore di immaginare e quindi di realizzare futuri alternativi.
Abbiamo citato alcune delle opere migliori che la letteratura steampunk possa offrire, ma in termini di qualità sono eccezioni. Charlie Stross si è fatto conoscere soprattutto per la sua critica dello steampunk come brutta narrativa di genere, ma lui non è certo l’unico a sentirsi frustrato di fronte alla proliferazione di volumi con ingranaggi sulla copertina e prosa illeggibile all’interno. Nell’ultimo anno abbiamo abbandonato quasi tanti romanzi steampunk quanti ne abbiamo finiti, perché molta della roba in diffusione è brutta e a volte addirittura terribile. Siamo però convinti che in questo modo non si colga il fatto che la brutta narrativa di genere è soprattutto solo brutta narrativa. Non possiamo chiedere a un romanzo steampunk (o a un film, a un’opera d’arte, a un brano musicale ecc.) di essere migliore di un romanzo d’amore di vampiri, di un’epopea spaziale o di qualunque altra categoria generica che ha fatto emozionare il pubblico (e gli editori) e che quindi porta a sfornare molti contenuti. Se il pubblico è entusiasta del genere, si scriverà molto, e che molto di quello che verrà scritto sarà manieristico e da dimenticare si può dire di quasi tutti gli altri libri presenti in libreria. Continuiamo a leggere Jane Austen ed Emile Zola mentre molti loro contemporanei (e ne avevano parecchi) sono stati dimenticati: è ingiusto aspettarsi che succeda qualcosa di diverso nella letteratura popolare del giorno d’oggi. Ma invece di disperarci, noi crediamo che tutta quella letteratura steampunk d’infimo ordine possa tornare utile, soprattutto se i suoi autori cercano ispirazione nei posti giusti. Nell’epoca di Twitter e delle notizie in tempo reale, non si può risultare convincenti limitandosi a dire cose intelligenti e importanti. Bisogna fare in modo che il messaggio venga ripetuto, che risulti più accessibile a fasce di pubblico diverse, bisogna confezionarlo, diluirlo, farlo andare avanti e indietro, farlo trasmettere da molte fonti differenti allo stesso tempo. Questa cassa di risonanza mediatica può essere incredibilmente nociva quando a proliferare sono idee distorte (come la paura dei vaccini per i bambini) che ricevono legittimità non meritata solo grazie alla loro ripetizione. D’altra parte, può anche far funzionare le buone idee, e la natura “derivata” di buona parte del genere steampunk contemporaneo ha il potenziale di rendere più plausibili i mondi immaginari che vengono descritti: meno fantastici e più simili a
qualcosa che tutti ritengono probabile. Inoltre, nella scrittura la bruttezza è soggettiva, e dal punto di vista del cambiamento sociale l’accessibilità è quasi importante quanto il contenuto. Un fumetto steampunk pieno di seni prorompenti e frasi semplificate non potrà ascendere al rango di alta letteratura, ma se divulgherà le idee presentate in libri di autori “migliori”, e se il prezzo dell’attrattiva popolare (come la nausea provocata da quei seni) non supererà il messaggio di cambiamento, lo si potrà comunque considerare un successo.
A questo punto sarebbe il caso di sottolineare che non ci troviamo in un terreno sconosciuto. Molto di quello che abbiamo detto dello steampunk può essere trasposto facilmente al suo antenato più prossimo, il
cyberpunk. Come William Gibson ha sostenuto in una recente intervista al Paris Review, si ha  l’impressione che il cyberpunk sia stato ripreso troppo facilmente dalle stesse strutture di potere che cercava di minare alla base e che sia stato ben presto trasformato da qualcosa che ci esortava a “fottere il sistema” in un’estetica utilizzata per venderci contratti di telefonia mobile più iniqui su apparecchi prodotti in condizioni terrificanti nelle fabbriche del terzo mondo. In tutta franchezza, noi pensiamo che sul mondo promesso dal cyberpunk non sia detta l’ultima parola e che l’evidente predominio delle grandi aziende
dell’informazione come Facebook, Apple e Google si possa ancora contrastare attraverso la prospettiva dell’hardware autoprodotto, del codice aperto e dell’hacking ribelle. Ma anche se il cyberpunk fosse
davvero morto, avremmo comunque motivo di sperare che lo steampunk non condividerà il suo stesso destino, per motivi che ci costringono ad ammettere un nostro errore di valutazione.
Ci siamo schierati dalla parte di chi si faceva beffe delle persone che indossavano costumi steampunk e adottavano personalità artificiali nello stile del gioco di ruolo. Volevamo che i “costumi” dello steampunk
fossero di moda e che le persone interagissero con la realtà come Jane Smith piuttosto che come il capitano di dirigibile Euphemia Mountebank.
Lo vogliamo ancora, e continuiamo a credere che alla fine lo steampunk avvizzirà se chi lo pratica prediligerà costantemente ambiti ludici creati in alberghi dotati di sale congressi e popolati da personaggi fittizi piuttosto che geografie sociali caotiche abitate da persone reali. Ma ci sbagliavamo, e siamo sempre più convinti che in certa misura l’apparente evasione del gioco di ruolo protegga di fatto dagli influssi maligni del mercantilismo massificato. Sospettiamo che l’apparente discrepanza fra la cultura sociale letteraria e quella traboccante di giochi di ruolo dello steampunk sia in realtà un punto di forza più che una debolezza. Gli steampunk si fanno vendere qualunque stronzata, qualunque tipo di film o di musica, e cliccano “mi piace” con abbandono e sprezzo del pericolo su qualunque gattino dotato di occhialoni da pilota. Non sembrano tuttavia particolarmente interessati a comprare visioni altrui su come dovrebbero essere fatti i loro personaggi di fantasia. I tentativi di smerciare identità particolari (come quelle in vendita su Steampunk Emporium e Clockwork Couture) avranno favorito il commercio di molti capi singoli, ma non abbiamo mai visto uno steampunk scegliere una di quelle identità integralmente. Per analogia, se gli steampunk sono ben felici di giocare a giochi di ruolo specifici del genere come Unhallowed Metropolis e Space:1889, in genere tengono i loro personaggi dei giochi separati da quelli che impersonano in quanto “steampunk”. Un aspetto cruciale dei personaggi steampunk consiste a quanto pare nella scelta di vivere in un mondo unico o creato solo con alcuni altri partecipanti, ad esempio la ciurma di un dirigibile. Questi mondi sono inventati solo dai loro abitanti e anche se Jane Smith compra i suoi vestiti da Hot Topic, nel
mondo che ha inventato per viverci come capitano Euphemia Mountebank non ci sono sponsor aziendali, e in quello spazio protetto esiste almeno la possibilità di immaginare un mondo senza centri commerciali e senza il dominio dell’industria automobilistica e petrolchimica. Ma soprattutto è più che probabile che una parte di quel sogno si trasferisca nella sua vita vera.
Una questione correlata riguarda il fatto che molti sedicenti steampunk non sono solo disinteressati allo steampunk come mezzo di cambiamento sociale, ma vi si oppongono fermamente. Qualunque argomento anche solo vagamente correlato a problemi sociopolitici concreti (anche se storici) provocherà sicuramente sonore obiezioni secondo il motto: “lo steampunk non deve essere politico!” A difesa di questa tendenza all’evasione bisogna osservare che, data l’eterogeneità e la quantità delle persone interessate allo  steampunk, è inevitabile che esistano due (o più) punti di vista diametralmente opposti anche sulle posizioni politiche più innocue (come ad esempio sull’idea che Abramo Lincoln si sia schierato contro l’esecrabile corruzione morale degli Stati Uniti o che la liberazione della donna sia stata uno sviluppo positivo) e che di fronte a questa mancanza di consenso avere una comunità coesa è molto difficile. Mantenere rapporti civili è più semplice quando la discussione più accesa (portata avanti fino alla nausea, ma evidentemente senza che molti steampunk l’abbiano a noia) riguarda la possibilità che un particolare oggetto/canzone/film/libro/pubblicità/ecc. soddisfi una definizione assolutamente arbitraria dello  steampunk.
Purtroppo, nonostante i sostenitori dell’evasione propongano una struttura meno polemica di comunità, mettono anche a dura prova le idee e le azioni di chi invece vuole usare lo steampunk come piattaforma
di cambiamento sociale. Ammettiamo che non abbiamo una soluzione per questo problema: alla fine possiamo solo sperare che la comunità sia abbastanza tollerante e capace di autoregolamentarsi per reggere al fatto che alcuni vogliono parlare di “politica steampunk” e altri no.
Tuttavia, in un certo senso chi preferisce evadere non conta niente, almeno se si considera lo steampunk un movimento immaginario. Se un sostenitore dell’evasione afferma a gran voce che lo steampunk è apolitico,
ma poi è disposto a addentrarsi in un luogo di fantasia in cui gli esploratori europei interagiscono in maniera paritaria con le donne e le popolazioni indigene e in cui i pirati sono giustificati a livello morale per aver rapinato gli industriali sfruttatori, be’, che continui a credere di disapprovare un movimento politico: per tutti i motivi discussi sopra, infatti, sta comunque contribuendo alla causa.
A giudicare da quanto detto finora, sembrerebbe proprio che abbiamo la coscienza a posto qualunque cosa facciamo. La scrittura steampunk è quasi tutta terribile, l’estetica steampunk si può impiegare per vendere quantità infinite di stronzate di plastica da quattro soldi e gli stessi steampunk possono essere aggressivamente apolitici, ma nonostante tutto possiamo comunque contribuire a creare un futuro migliore attraverso questo immaginario. Tutto questo è chiaramente falso e l’elefante nella stanza è la natura della visione proposta dallo steampunk. Il potere della fantasia non ci esonera dalla responsabilità di ricordare il passato e di interrogarci sul tipo di futuro che vogliamo costruire e, anzi, fa l’esatto opposto, e dobbiamo
riconoscere che questo attenua il nostro ottimismo. Se i mondi fantastici degli steampunk sdoganano costrutti sociali tossici, possiamo star certi che queste visioni non creeranno un mondo diverso e migliore ma riprodurranno (o peggioreranno perfino) quello attuale. Alcuni esponenti particolarmente in vista del movimento steampunk immaginano veramente, e con un trasporto fuori luogo, un diciannovesimo secolo fatto di militarismo, imperialismo, razzismo e capitalismo corrotto dell’età dell’oro. Non sappiamo se si tratti di ignoranza o di sociopatia, ma resta il fatto che molti steampunk non sono particolarmente  sospettosi nei confronti di questa nostalgia e rimpiangono davvero i “bei vecchi tempi”, seppure abbelliti da “gadget” più luccicanti.
In definitiva spetta a noi tutti determinare la natura dei mondi immaginati dagli steampunk. È in questo paesaggio immaginario che si ingaggerà, che già si ingaggia, la battaglia per l’anima dello steampunk e che si scoprirà definitivamente se lo steampunk conta davvero qualcosa. Ma siamo convinti che una possibilità almeno ci sia, perché anche se le grandi aziende se ne appropriano, lo steampunk ha la capacità più unica che rara di permetterci di visualizzare mondi diversi dal nostro ma abbastanza simili e potenzialmente realizzabili. Anche a prestar fede a chi sostiene che lo steampunk è solo un’estetica, uno stile, un motivo
letterario, dobbiamo ricordare che l’estetica ha un grande potere. C’è un motivo se i tiranni e i regimi
totalitari uccidono o ostacolano gli artisti e gli scrittori. Un romanzo può cambiare il mondo, perché può
ricostruire gli spazi dentro la nostra testa. Lo steampunk ci permette di immaginare il cambiamento e di costruire città invisibili che un giorno potrebbero esistere. Se ci guardiamo attorno nel mondo reale e non ci piace quel che vediamo, dobbiamo cominciare a costruire da qualche altra parte, in un luogo migliore. E dove cominciare a costruire quel futuro migliore se non nei paesaggi della fantasia? Dove altro può avere inizio il cambiamento del mondo reale se non all’interno della nostra mente?


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