- Babau olio su tela di Ginox
- Chananke: Hideo di Ginox
- Licheni – parte prima di Pinche
- Incompleto di Beta
Babau olio su tela di Ginox
Quando il babau piange, un olio denso solca la sua maschera e ricopre i corpi degli abitanti del paese di babau.
Quando gli amanti si stringono, i loro corpi fuggono lontani l’uno dall’altro, tanto che la nostalgia uccide il desiderio nel reame del babau.
Quando le mani del popolo delle citta’ si incontrano scivolano l’una sull’altra ed anche i loro stessi arti sono impossibilitati al contatto.
Le strade sono scivolose nei giorni tristi del babau, si cade, e se si riesce ci si rialza da soli, oppure si rovina in terra.
Ogni tanto si incontrano dei crocicchi di carne invischiati tra di loro incapaci di discricarsi, eppure i loro corpi non si conoscono, tanto sono imprendibili.
Non ci si puo’ fermare a parlare sulle strade frequentate dal babau, e’ un mondo di spostamenti veloci. L’incedere del tempo e’ frenetico, si scivola via gli uni dagli altri, e non resta nulla. Ogni oggetto cade dalle mani. Non si conosce e non si possiede veramente nulla. Si desidera, e tanto. Si vaga, si afferra, e subito tutto scivola lontano. Bisogna temere il contatto. Chiunque potrebbe tenderti la mano e trascinarti a terra con lui. Potresti non piu’ rialzarti.
A volte il babau cade in un sonno profondo e poi sogna e piange. Nel suo sogno un largo abbraccio avvolge gli abitanti del paese di babau, potrebbero toccarsi, ma la paura e’ il primo dei bisogni nel regno di babau. Tutto resta immobile. E tutto torna a scivolare lontano. Il babau si sveglia e piange, piange tutte le nostre paure.
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Chananke: Hideo di Ginox
La prima volta che disegnai dei solchi sul mio corpo fu per opera di una giovane artista di soli 6 anni. Si trattava di piacevoli scarabocchi dal significato incerto. Anni dopo fu una lametta a scavare tratti oscuri sulla mia pelle. Fino a quando non conobbi l’opera di chananke ed il tatuaggio prese il posto delle ferite e delle cicatrici.
Fu un passaggio quasi obbligato verso una forma capace di dare un significato armonioso al meccanismo disperante della ferita e della rimarginazione.
La ferita e’ la prova della propria esistenza, della propria persistenza nella realta’, cedere il sangue, perdere la linfa e sopravvivere, nonostante tutto. Cadere, rialzarsi, cadere e rialzarsi ancora.
Il tatuaggio e’ cosa effimera, vive con te e muore con te. Non puo’ sopravviverti come un quadro o una statua. Se un’opera d’arte fosse pregna di un istinto negativo e malvagio quest’ultimo sopravviverebbe al suo autore, ma un tatuaggio no, esaurisce la propria funzione e lascia poco o nulla dietro di se’. Apre e chiude un ciclo, ed in questa ciclicita’ trova la propria giustificazione.
Il tatuaggio e’ un’opera intrinsecamente dotata di sarcasmo, se non proprio di cinismo. Anche chi si illude che il tatuaggio sia un’affermazione forte di qualche tipo, e’ costretto a fare i conti con la morte fisica, l’avvizzimento della pelle, la vecchiaia, la noia. Intrinsecamente in quanto non e’ detto che il portatore ne sia consapevole.
Chananke segna il tuo corpo. E’ uno strano rapporto, un legame particolare, anche quando non e’ ricercato. Puoi pagare e avere quello che vuoi, ma trasposto di fronte allo specchio non ti permette di dimenticare. E’ li’ per ricordarti chi sei, chi sei stato e quello che non potrai mai essere.
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Licheni di Pinche
Prima parte
Mentre camminava la punta delle scarpe si confrontava con un pietrisco di mattoni
e oggetti metallici spenti.
C’era un’aria fredda e tagliente, si riaggiustò il bavero del cappotto.
Solo dieci minuti prima la pioggia cadeva spietata, adesso il cielo sembrava pacificato e l’aria ripulita, uno sfogo come di pianto.
Annusava l’aria, le macerie tutt’intorno sapevano di bosco. I mattoni rotti, i blocchi di cemento sbeccati, quelle piccole isole di asfalto che ancora ogni tanto spuntavano da sotto l’erba.
Arrivò alla Porta-con-la-bocca. Veniva chiamata così perché delle due ali del portone di ferro era rimasto solo un paio di grosse schegge in alto che formavano gli zigomi di un faccione con la bocca aperta.
Era una bellissima porta, una delle sue preferite, una delle tante rimaste a custodire palazzi immaginari e fabbriche invisibili. Come tutte le altre, la Porta-con-la-bocca non serviva assolutamente a niente, era solo il ricordo di ciò che una volta custodiva. E come per tutte le altre, non ti saresti mai sognato di non usarla, di prenderti gioco di lei magari passando di lato.
Seduto sulla balaustra di una finestra orfana c’era Typtri.
-Ciao Zam.
-Ciao.. oggi al posto della neige e’ venuta giu’ questa pioggia lentissima.. hai sentito?
-Mm. Bello, mi piace la pioggia. Dopo gli odori sono tutti piu’ acuti.
Nell’avvicinarsi lo sguardo di Zam si era perso dietro a una lunga colonna di formiche che risalivano la balaustra, ognuna con il suo minuscolo carico di detriti.
-Questo posto tra poco sarà mangiato come tutto il resto. Mi dispiacerà quando la Porta-con-la-bocca non ci sarà più.
-Zam, forse ho trovato un posto dove cercare la tua valvola.
Alla baia mi hanno parlato di una vecchia fabbrica a Città22, produceva componenti elettronici e idraulici. Dicono che molti muri sono rimasti su, in alcune parti c’è anche il tetto, non sarebbe strano trovarci qualcosa di ancora buono.
-Sarà stata saccheggiata..
-Si, chiaro, ma la tua valvola non la vuole nessuno.. non la usavano piu’ dalla fine del ‘900..
-Non so, Typtri. Città22 è lontana. A volte penso che dovrei rinunciarci a questa fottuta valvola. Vi sto facendo perdere un sacco di tempo, a tutti quanti.
-Zam, ma seriamente pensi che io abbia qualcos’altro di meglio da fare? Typtri le avrebbe sorriso, se gli fosse riuscito e Zam apprezzò comunque il tentativo.
-E poi chissà magari nella fabbrica a Città22 trovo dell’olio, o qualche rotella..
-Che ti devo dire. Però allora partiamo stasera, volare senza neige chissà quando ci ricapita.
Typtri rovinò giù dalla balaustra, con quelle zampette corte aveva poco da fare lo sportivo, e con tutto quel ferro corroso zam aveva sempre paura di vederlo cadere in pezzi da un momento all’altro. Era un aggeggio buffo typtri, il suo aspetto contraddiceva sempre le sue parole.
-Appuntamento alla baia tra un paio di ore allora. Il tempo di prendere un po’ di cose. Io porto dell’olio e dell’acqua che ho trovato ieri, dovrebbero bastarci fino a Città22.
-Ok Typtri, tra due ore alla baia.
Due ore erano un lasso di tempo vagamente compreso tra il subito e il mai. Calcolare il tempo ormai era una cosa troppo difficile perché qualcuno si convincesse che ne valeva la pena. Mantenere un orologio, ammesso che fosse possibile, avrebbe voluto dire rinunciare a un qualche altro ingranaggio ben più importante, perciò orologi e sveglie erano stati cannibalizzati tutti già da decenni. Giù alla baia avevano un paio di meridiane e tenevano il conto dei giorni, ma era più per abitudine che per altro. Per darsi un appuntamento si approssimava ricordandosi delle vecchie convenzioni: un quarto d’ora è meno di un’ora, che è meno di due giorni.. Chi arrivava per primo aspettava, tanto difficilmente c’erano altre cose più importanti da fare.
Per gli anni era più facile, le stagioni si distinguevano ancora abbastanza bene, nonostante la neige che cadeva continua a ricordare i giorni delle bombe.
Zam passò le fantomatiche due ore andando a casa a prendere lo zaino. Ci mise dentro il berretto da aviatore, l’ombrellino bianco, un maglione a collo alto, un po’ di cianfrusaglie e pezzi di ricambio vari. Era tanto che non faceva un viaggio. Decise di festeggiare mettendo il vestito a righe verdi che aveva trovato anni fa in quel teatro quasi intatto. La faceva sentire una bambola di porcellana.
Si legò i capelli con un grande fiocco di raso rosso. Con l’azzurro dei capelli e il verde del vestito aveva già toccato molti più colori di quanti era solita indossare, chiuse il discorso con i suoi stivali di gomma neri. Prese lo zaino, scese dall’albero e si diresse verso la baia.
Alla baia c’era il solito fermento. C’erano Emù e Parco che armeggiavano con dei pistoni dorati montati dentro un tubo di plastica grande come un frigorifero, i Pargoli stavano seduti in terra a guardare, ogni tanto ridevano e tiravano un sassetto verso Emù.
-Ciao Emù. Che fate?
-Ehi Zam. E’ la macchina nuova di cui ti parlavo l’altro giorno. Beh questo è un pezzo del motore.. non so, mi sembra che la distanza tra i pistoni sia giusta.. che ne dici?
-Boh si. Hai già fatto delle prove?
-No, figurati, abbiamo appena finito di incastrare i pistoni..
-Non vi posso dare una mano Emù, mi dispiace.. ho appuntamento con Typtri, siamo in partenza per Città22.
-Per quella cosa della fabbrica? Gliel’ho detto io a Typtri..
Le sue grandi corna gli incorniciavano il volto mentre si illuminava in un sorriso orgoglioso.
-E’ passato un tipo l’altro giorno, veniva da Città22 e ci ha raccontato di questa fabbrica in buone condizioni. Dice che ci ha trovato dei rotoli di gomma perfettamente conservati. A lui fanno comodo perchè dice che ci isola gli innesti che ha sulla schiena..
-Boh speriamo Emù. Non ci faccio più tanto affidamento ormai. E’ un modello di valvola vecchissimo, quando ha iniziato a cadere la prima neige non la usavano già da decenni..
-Vedremo. Ah senti Zam, quando siete in giro vedi se trovi anche un po’ di bulloni del 15. Non ne abbiamo più tanti e ci servono per le cerbottane dei Pargoli.
-Ok. Vediamo che trovo.
La baia raggruppava la vita di tutti i residui della zona. Quando ci arrivavi la visione di insieme poteva darti il capogiro. In alto, decine di alberi ospitavano un reticolo di case, passaggi e scivoli. In basso le piccole strade di erba consumata dai passi si snodavano tra cumuli di ferro arrugginito, marchingegni e componenti di qualsiasi forma. La baia era costruita sopra un immenso laboratorio meccanico.
Arrampicandosi sulla scala che portava al Bar Aureo Zam incontrò un Pargolo che scendeva. Era Hud, con il suo carico di bottiglie di plastica.
-15 oggi. Zam, quando scendi mi porti giù quelle che avanzano? Ne dovrei aver lasciate su 4 o 5 che non mi entravano nello zaino…
-A che punto è la casa? Avete finito le pareti?
-Siamo quasi a fine.. ancora un’ottantina di bottiglie e possiamo iniziare con il tetto. Berc è andato a prenderne un grosso carico alla vecchia discarica, con quello dovremmo aver finito.
-Verrà bellissima Hud. Ora sto partendo, ma quando torno vengo a vedere come procede.
Prendi una bottiglia di plastica, ci metti dentro la sabbia, hai fatto un mattone. Incastri quattro mattoni insieme, hai iniziato un muro.
Dentro al bar aureo non c’era quasi nessuno. Typtri fece un beep di saluto, mentre Zam si prendeva un bicchiere di succo.
-Quanto ci vuole ad arrivare a Città22 Typtri?
-Mah se il velidromo tira abbastanza e non ricomincia la neige dovremmo esserci in qualche ora.
Zam pensò all’ultimo viaggio, passato in cerca di quel fiume ad ovest.. C’erano voluti tre giorni e poi il fiume era secco.
-Pensavo peggio.
Al garage trovarono Lip con mezzobusto completamente infilato dentro uno dei grandi serbatoi da velidromo. Quando riemerse aveva le braccia piene di morchia fino al gomito, la faccia arrossata e la camicia ancora troppo bianca.
Si illuminò in un sorriso.
-Zam! Velidromo?
-Si Lip, ci serve il tuo aiuto per spingerlo fino alla pista.
Il velidromo che usava sempre zam era di ottone. Lo aveva costruito Emù dopo un saccheggio a un grande transatlantico arenato su una spiaggia a nord. Con l’ottone delle finiture del transatlantico ci erano andati avanti per diversi anni nella baia.
A Zam piaceva particolarmente perché i sedili venivano dallo stesso teatro dove aveva trovato il vestito. Erano di velluto marrone, consumati solo un po’, ma sempre comodi.
Riempirono il serbatoio d’acqua, oliarono il motore e caricarono le riserve dentro il velidromo.
Quando furono pronti, mentre il motore si accendeva con uno sbuffo di vapore, Zam si voltò a guardare Lip nel suo bel volto in bianco e nero, con il suo grembiule grigio e i suoi occhi viola.
Chissà come appariva il suo fiocco di raso rosso agli occhi della sua vista psichedelica.
Typtri salì accanto a lei, Zam si calcò berretto e occhialoni e decollarono.
-Zam, credo che quella là sotto sia Città22.
Il viaggio era stato rinfrescante. Zam non si era mai spinta così a nord, né tantomeno le era capitato di volare senza neige. Dopo qualche ora la neige era ricominciata, portandosi dietro quel silenzio scricchiolante. Adesso, a mano a mano che si avvicinavano, una città bellissima faceva di tutto per farsi notare.
Un fiume, quasi del tutto prosciugato, la percorreva in quasi tutta la lunghezza dividendola a metà. A nord si vedevano enormi distese di casermoni accartocciati su sé stessi come elefanti addormentati. Al centro invece l’erba era cresciuta un po’ ovunque, e diversi alberi fiorivano dentro grandi chiese gotiche scoperchiate.
-Typtri ho già visto questa città… davvero…
-Beh è chiaro Zam. Questa è Parigi.
Atterrarono in un grande campo, a est.
Faceva un freddo da intirizzire le dita, zam rimpianse di non aver portato i guanti.
Si incamminarono verso quella che dall’alto era sembrata la zona più intatta.
Typtri aveva quel suo modo buffo di procedere annusando l’aria e inciampando ogni tanto nei copertoni e nei pezzi di ferro arrugginito.
Si guardò intorno. I licheni erano finiti. Rimaneva un brandello di foglia di acero smangiucchiata l’altro ieri e rimasta lì a seccare.
Si accontentò, tanto per avere qualcosa da biascicare mentre tornava a casa.
Da una settimana le giornate stavano iniziando a sgelarsi. Freddo era ancora freddo, ma non come prima, non quel gelo che ti faceva male alle ossa.
Mentre risaliva la riva del fiume si fermò giusto un attimo a controllare che il cielo non minacciasse pioggia. E mentre lo sguardo tornava verso terra notò uno sbrilluccichio nascosto tra i rametti secchi.
Era un bullone. Ne aveva visto qualcun’altro quando si era spinto fino al fabbricone vuoto dall’altra parte della collina. Come era arrivato fin qui proprio era difficile da immaginare. Magari una gazza ladra l’aveva lasciato cadere stanca lungo il viaggio.
Un bel bullone. Grande e di color ottone.
Lo spostò con la zampa in modo che rimanesse nascosto.
Zam guardò Typtri mentre con le sue grosse tenaglie spostava un blocco di vetro-cemento.
-Se avessimo un velivolo più grande tutto questo vetro-cemento farebbe un gran comodo alla baia.
-Typtri, un sacco di cose farebbero comodo alla baia, inizio a essere un po’ stanca di spostare cose da un lato all’altro del mondo.
Si guardò le scarpe. Aveva sonno. Quel sonno che aveva iniziato a incrostarglisi addosso da quando le si era rotta la valvola AP 7080.
Camminarono ancora a lungo, dando calci a scatole di polistirolo e facendo frusciare carte di cioccolatini in terra.
Una discarica, era profondamente malinconico vivere in una enorme discarica senza senso. Era come vivere dentro a una palla di vetro affumicato.
Eppure qualcosa girava come mai aveva girato prima e non era soltanto perche’ non c’erano altre alternative. Zam percepiva da tanto tempo l’irriducibile iperattivismo di chi sta costruendo qualcosa, qualcosa di così bello da far tremare.
Il sonno però le prendeva gli occhi ogni momento.
La fottuta valvola. Eredità imperfetta di un’imperfetta industria genitrice.
Proprio appena davanti alla porta di casa gli venne voglia di mettersi a sedere. Com’era stare seduti? Non se lo ricordava più. Era stato eccitante e bellissimo farsi trasmutare in cervo, ma ogni tanto in fondo all’angolo destro dell’occhio sinistro si formava una lacrima che conteneva ricordi perduti. Ricordi banali di cose banali. Eredità imperfetta di un’imperfetta industria genitrice.
Zam si fermo’ di scatto.
Davanti a loro in fondo alla strada c’era una casetta di legno. una di quelle delle favole:
una casetta in mezzo a un bosco di macerie. E proprio di fronte alla porta della casetta c’era un grosso cervo accovacciato in una posizione assurdamente buffa, con una zampa come accavallata sull’altra. Un cervo seduto.
I suoi occhi erano l’incontro tra l’attenta concentrazione di uno sforzo insostenibile e una distratta tristezza senza fondo.
(continua nel prossimo numero)
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Incompleto di Beta
Lattina di birra accartocciata
all’angolo di tavolochevomitacenere
& il cuore
espulso
da carne
che perde t
da ogni poro. e
Tristezza m
senzanome p
che sbatte o
sottopelle
e non trova un’uscita.
Uccelli notturni
in volo
verso la luna,
così le parole
danzano
sul bianco elettrico
che mi sta di fronte,
calamitando i pensieri,
accogliendo ali di segno,
sospiranti silenzi
&i miei occhi
che riflettono
un vuoto
al fosforo bianco.
Detriti umani
sotto le macerie
d’inutili parole
di propaganda,
di una pace violentata ogni giorno
dai lamenti
di chi in pace non riposa,
così i vivi, come i morti,
i figli di nessuna terra
i figli senza nome
i figli di una terra senza nome.
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