«Ah, vuoi aspettare, eh? Vediamo se è vero». Ghigno beffardo, le dita scivolano, il vestito troppo sottile.
Anna guarda il recinto del campetto di calcio deserto, il cielo troppo azzurro, passivo, impassibile. Dietro di lei la porta del ristorante è lontana, nascosta dietro un muro di cemento scrostato. Solo un uccello cammina sul filo della luce sopra la sua testa. Anna lo segue con lo sguardo, ma non ha la forza di scappare. E nemmeno di resistere. Alla fine se l’è voluta. Non c’è bisogno che glielo dicano gli altri. Se lo dice da sola.
Al Tufello, si è fatta portare, praticamente in campagna. Campi incolti, palazzi troppo lontani, Anna neanche lo sa, dove sta il Tufello. Quando è arrivata a Roma pensava di aver preso in mano il suo destino, le pareva di stare in un film. A New York con le torri gemelle, a Cinecittà con Alberto Sordi, al tavolo di un’osteria, assieme a Pasolini e a Laura Betti. Il centro del centro. La sua vita a quel punto doveva cambiare, per forza.
Quando era piccola i toni del nonno che parlavano dei parenti lontani glielo avevano fatto capire subito: se vai a vivere a Roma hai svoltato. Certo, anche quelli che stavano a Padova erano da invidiare. A Milano e a Torino no: lassù ci andavano solo i poveracci, a sgobbare nella nebbia con la schiena curva e gli insulti dei settentrionali, ma comunque bastava andarsene via dal paese e dal Sud per sistemarsi. Una certezza. Quando Anna era bambina.
In ogni caso, la certezza più grande era Roma: se arrivavi nella capitale voleva dire che eri qualcuno, per sempre. E allora potevi anche aiutare la famiglia, che ti mandava le mozzarelle e il vino buono una volta al mese dalla campagna.
Così alla fine a Roma Anna ci è andata, e si è sentita tutt’altro che svoltare. È da un anno che ci vive, e conosce solo la Linea B. Ci ha viaggiato solo in un senso: Rebibbia-Piramide, Piramide-Rebibbia. Poi il trenino per Ostia e nient’altro.
I primi giorni prendeva gli autobus apposta, per vedere il panorama, e ogni tanto si faceva pure due fermate a piedi, per guardare da vicino il Colosseo, i Fori Imperiali, piazza Venezia, correndo al lavoro.
Ma durava poco: il giorno dopo ricominciava il trantran, Anna scendeva le scale della metropolitana di corsa e si rituffava nel suo incubo quotidiano. Circondata da una calca di persone, si sentiva come nel deserto. Sfiorava giacche, braccia, zaini, borse della spesa, inciampava in cani e bambini, veniva trascinata dalla folla, controllava che nessuno le mettesse le mani addosso o in tasca, corpi su corpi su corpi. Ma le sembrava che nessuno potesse toccarla. Gettarla a terra sì, calpestarla, ma le mani, gli occhi, non esistevano, rifuggivano il contatto.
Ne aveva parlato pure con una psicologa, le aveva detto: certe volte, come quando mi trovo per mezz’ora schiacciata nella metropolitana e non riesco neanche a muovere le braccia per tirare fuori un libro dalla borsa, poi torno a casa e devo stare un’altra mezz’ora seduta sul letto a controllare l’affanno prima di mettermi a cucinare. La psicologa le chiese che cosa rappresentasse per lei la metropolitana e perché la spaventasse tanto. Anna pensò che il giorno prima i treni si erano fermati per un’ora: qualcuno si era suicidato al capolinea. Un capolinea che lei nemmeno sapeva dove fosse. Il tipo era saltato sotto la locomotiva per farla finita una volta per tutte. Anna rispose: forse lei non la prende mai in ora di punta, la metropolitana, e non fissò più nemmeno un secondo appuntamento.
Fu in quel periodo che cominciò a percepire quello scollamento dalla realtà. Da una parte c’erano lo stage, il lavoro da portare a casa per arrotondare, la moquette blu dell’ufficio, i tacchi a spillo delle colleghe, le lettere, i paragrafi, gli accenti e le gabbie. Tutti i sotterfugi che servivano a tenere a bada il cervello per più di otto ore al giorno, per mantenere la concentrazione. Poi c’era il resto. Neanche beveva, Anna. Fumava un sacco, quello sì, ma a rilassarsi non le serviva più da molto tempo.
Una sigaretta dopo l’altra, fumava per non pensare. Era venuta a Roma per Marco, mica per lavorare, ma ora che era tutto finito, un castello di carte che le era scivolato fra le dita, si convinceva ad andare avanti a suon di consegne e nuove commissioni.
Poi però il lavoro finiva, i suoi neuroni non reggevano più di tanto, e allora neanche i libri potevano più darle una mano. Sul suo comodino lo stesso titolo da mesi, Anna usciva di casa e camminava tra condomini torvi e distese di periferia abbandonata.
Fino a quel giorno, quando quella macchina si è fermata. Biondino, bocca sottile, nervosa, occhi celesti, chiari, sfrontati. Il naso doveva aver preso qualche pugno di troppo, per il resto la faccia ispirava simpatia.
«Ehi, bella! Ti ricordi di me?»
I denti bianchi nel suo sorriso l’hanno rassicurata. Anna ha provato a ricordare.
«Sono venuto a ripararti il lavandino, il mese scorso…»
Anna ha collegato e gli ha sorriso. Un sorriso, dopo tanti sguardi impauriti, o di competizione. «Ah, sì, com’è che ti chiami? Scusa… io i nomi non li memorizzo mai…»
«Io so’ Giulio. Te invece sei Anna, me pare. Salta su che ti offro da bere».
Anna è montata in macchina senza pensarci due volte: l’accento romano la rassicurava anche più degli sguardi. Sarà che se vivi a Roma vuol dire che sei qualcuno, sarà che voleva scoprire la città con Marco e invece ora al massimo le capitava di girare a piedi per la Magliana.
Fuori al ristorante c’era un prato incolto. Anna si è tolta i sandali per farsi strapazzare i piedi dalle stoppie.
Giulio l’ha stretta da dietro, le ha baciato il collo, l’ha buttata a terra. Era la prima volta da tanto tempo che una mano le sfiorava la pelle.
«Senti, noi non ci conosciamo quasi, non pensi che sarebbe meglio aspettare?»
«Ah, vuoi aspettare, eh? Vediamo se è vero»
Le dita si infilano sotto le mutande, una scossa elettrica.
Intorno il niente. Anna si abbandona, prova a non pensare. Tanto a che serve opporsi. Controllando il respiro, dice: «Dai, almeno andiamo in macchina. Qui potrebbero vederci».
Anna. Una storia di comune precarietà
«Ah, vuoi aspettare, eh? Vediamo se è vero». Ghigno beffardo, le dita scivolano, il vestito troppo sottile.
Anna guarda il recinto del campetto di calcio deserto, il cielo troppo azzurro, passivo, impassibile. Dietro di lei la porta del ristorante è lontana, nascosta dietro un muro di cemento scrostato. Solo un uccello cammina sul filo della luce sopra la sua testa. Anna lo segue con lo sguardo, ma non ha la forza di scappare. E nemmeno di resistere. Alla fine se l’è voluta. Non c’è bisogno che glielo dicano gli altri. Se lo dice da sola.
Al Tufello, si è fatta portare, praticamente in campagna. Campi incolti, palazzi troppo lontani, Anna neanche lo sa, dove sta il Tufello. Quando è arrivata a Roma pensava di aver preso in mano il suo destino, le pareva di stare in un film. A New York con le torri gemelle, a Cinecittà con Alberto Sordi, al tavolo di un’osteria, assieme a Pasolini e a Laura Betti. Il centro del centro. La sua vita a quel punto doveva cambiare, per forza.
Quando era piccola i toni del nonno che parlavano dei parenti lontani glielo avevano fatto capire subito: se vai a vivere a Roma hai svoltato. Certo, anche quelli che stavano a Padova erano da invidiare. A Milano e a Torino no: lassù ci andavano solo i poveracci, a sgobbare nella nebbia con la schiena curva e gli insulti dei settentrionali, ma comunque bastava andarsene via dal paese e dal Sud per sistemarsi. Una certezza. Quando Anna era bambina.
In ogni caso, la certezza più grande era Roma: se arrivavi nella capitale voleva dire che eri qualcuno, per sempre. E allora potevi anche aiutare la famiglia, che ti mandava le mozzarelle e il vino buono una volta al mese dalla campagna.
Così alla fine a Roma Anna ci è andata, e si è sentita tutt’altro che svoltare. È da un anno che ci vive, e conosce solo la Linea B. Ci ha viaggiato solo in un senso: Rebibbia-Piramide, Piramide-Rebibbia. Poi il trenino per Ostia e nient’altro.
I primi giorni prendeva gli autobus apposta, per vedere il panorama, e ogni tanto si faceva pure due fermate a piedi, per guardare da vicino il Colosseo, i Fori Imperiali, piazza Venezia, correndo al lavoro.
Ma durava poco: il giorno dopo ricominciava il trantran, Anna scendeva le scale della metropolitana di corsa e si rituffava nel suo incubo quotidiano. Circondata da una calca di persone, si sentiva come nel deserto. Sfiorava giacche, braccia, zaini, borse della spesa, inciampava in cani e bambini, veniva trascinata dalla folla, controllava che nessuno le mettesse le mani addosso o in tasca, corpi su corpi su corpi. Ma le sembrava che nessuno potesse toccarla. Gettarla a terra sì, calpestarla, ma le mani, gli occhi, non esistevano, rifuggivano il contatto.
Ne aveva parlato pure con una psicologa, le aveva detto: certe volte, come quando mi trovo per mezz’ora schiacciata nella metropolitana e non riesco neanche a muovere le braccia per tirare fuori un libro dalla borsa, poi torno a casa e devo stare un’altra mezz’ora seduta sul letto a controllare l’affanno prima di mettermi a cucinare. La psicologa le chiese che cosa rappresentasse per lei la metropolitana e perché la spaventasse tanto. Anna pensò che il giorno prima i treni si erano fermati per un’ora: qualcuno si era suicidato al capolinea. Un capolinea che lei nemmeno sapeva dove fosse. Il tipo era saltato sotto la locomotiva per farla finita una volta per tutte. Anna rispose: forse lei non la prende mai in ora di punta, la metropolitana, e non fissò più nemmeno un secondo appuntamento.
Fu in quel periodo che cominciò a percepire quello scollamento dalla realtà. Da una parte c’erano lo stage, il lavoro da portare a casa per arrotondare, la moquette blu dell’ufficio, i tacchi a spillo delle colleghe, le lettere, i paragrafi, gli accenti e le gabbie. Tutti i sotterfugi che servivano a tenere a bada il cervello per più di otto ore al giorno, per mantenere la concentrazione. Poi c’era il resto. Neanche beveva, Anna. Fumava un sacco, quello sì, ma a rilassarsi non le serviva più da molto tempo.
Una sigaretta dopo l’altra, fumava per non pensare. Era venuta a Roma per Marco, mica per lavorare, ma ora che era tutto finito, un castello di carte che le era scivolato fra le dita, si convinceva ad andare avanti a suon di consegne e nuove commissioni.
Poi però il lavoro finiva, i suoi neuroni non reggevano più di tanto, e allora neanche i libri potevano più darle una mano. Sul suo comodino lo stesso titolo da mesi, Anna usciva di casa e camminava tra condomini torvi e distese di periferia abbandonata.
Fino a quel giorno, quando quella macchina si è fermata. Biondino, bocca sottile, nervosa, occhi celesti, chiari, sfrontati. Il naso doveva aver preso qualche pugno di troppo, per il resto la faccia ispirava simpatia.
«Ehi, bella! Ti ricordi di me?»
I denti bianchi nel suo sorriso l’hanno rassicurata. Anna ha provato a ricordare.
«Sono venuto a ripararti il lavandino, il mese scorso…»
Anna ha collegato e gli ha sorriso. Un sorriso, dopo tanti sguardi impauriti, o di competizione. «Ah, sì, com’è che ti chiami? Scusa… io i nomi non li memorizzo mai…»
«Io so’ Giulio. Te invece sei Anna, me pare. Salta su che ti offro da bere».
Anna è montata in macchina senza pensarci due volte: l’accento romano la rassicurava anche più degli sguardi. Sarà che se vivi a Roma vuol dire che sei qualcuno, sarà che voleva scoprire la città con Marco e invece ora al massimo le capitava di girare a piedi per la Magliana.
Fuori al ristorante c’era un prato incolto. Anna si è tolta i sandali per farsi strapazzare i piedi dalle stoppie.
Giulio l’ha stretta da dietro, le ha baciato il collo, l’ha buttata a terra. Era la prima volta da tanto tempo che una mano le sfiorava la pelle.
«Senti, noi non ci conosciamo quasi, non pensi che sarebbe meglio aspettare?»
«Ah, vuoi aspettare, eh? Vediamo se è vero»
Le dita si infilano sotto le mutande, una scossa elettrica.
Intorno il niente. Anna si abbandona, prova a non pensare. Tanto a che serve opporsi. Controllando il respiro, dice: «Dai, almeno andiamo in macchina. Qui potrebbero vederci».
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